Il grande inganno del calcio moderno è la sua riduzione a
evento: ogni volta unico e irrepetibile e perciò riproducibile all’infinito,
non per migliorarne la fruibilità, bensì per sottrarne il senso. La
frammentazione del calcio moderno, le innumerevoli partite giocate, non
dilatano come potrebbe sembrare a prima vista la narrazione del pallone, la
riducono. La confinano. E costringendola in spazi angusti la condannano
all’oblio. Non è tanto che prima una partita durava almeno una settimana e adesso due o al massimo tre giorni, non è questo il punto. E’ vero che l’essere
umano necessita la liturgia, l’orologio gli permette di non conoscere il
vortice ciclico del tempo e di non essere risucchiato dal suo uragano. E allora
nel secolo breve ha bisogno di far durare la partita per una settimana, come il
tempo ciclico della produzione industriale, in modo che possa officiare riti in
concordanza col tempo che vive.
Ne risente il racconto, ma il desiderio ha la meglio: al
pallone è permesso di superare i confini e la narrazione calcistica, al di
fuori delle gazzette ufficiali, nelle chiacchiere da bar e da campetto si fa
eterna. Quando Van Basten segnò da posizione impossibile nella finale
dell’Europeo dell’88, in porta per la Russia c’era Yashin. Quando Baggio
sostituito al mondiale ’94 contro la Norvegia mandava a fanculo la panchina, il
c.t. era Valcareggi: come ai tempi di Chinaglia. L’urlo di Tardelli contro al
Mundial dell’82 proseguiva quello di Riva all’Europeo del ’68. Il numero 7 del
Manchester United erano sempre Best e Cantona: insieme. Puskas era il
centravanti di ogni squadra deIl’Europa dell’Est e Garrincha la finta di ogni
terzino brasiliano che si lanciava sulla fascia. Romario i primi gol col
Brasile li aveva fatti nel Mondiale del ’50, quello perso in casa con l’Uruguay
di Varela.
Il calcio era dissolvenza, racconto continuo e ciclico in
cui non c’era mai un prima e un dopo: l’eterno presente che esondava i confini
dello spazio. La partita infinita, cominciava all’alba, con il primo calcio tirato
a un pallone nei giardinetti vicino a casa, proseguiva nell’eterna adolescenza
delle partitelle con gli amici e non si fermava nemmeno nei ricordi della tarda
età. Poi, emancipato dal lavoro, l’uomo decide di comunicare; e smette di
narrare. Oggi il calcio segue il tempo pseudociclico, oltre la produzione e del
consumo; si gioca sempre e se ne è costretti a parlare anche di più. La
narrazione è costretta a farsi incessante e continua ma non per questo diviene
illimitata. Anzi, si fa effimera. Finita. Diviene cronaca (televisiva) che sostituisce
il racconto e si fa costante, ininterrotta, e perciò alza barriere e confini.
Il rettangolo verde non occupa più l’infinita distesa di generazioni che si
susseguono nei ricordi sovrapposti, ma si rinchiude in uno spazio e in un tempo
spettacolari, falsamente eterni e invece ben delimitabili. E quando un muro
delimita i confini del campo e impedisce al pallone di uscire privandolo della
libertà, il calcio muore soffocato.
Quando giochi a pallone, da bambino come da vecchio, coi
piedi o coi ricordi, la linea laterale e quella di fondo non esistono: il campo
è sospeso nella terra di nessuno, che è ovunque, non riuscendo a essere né al
di qua né al di là della propria esistenza. Per questo resiste la narrazione
del calcio. Se invece lo si costringe, lo si opprime, prima o poi le parole diventano
sempre di più e perdono il senso e si riducono all’opprimente silenzio della
morte. Il calcio è tale solo perché è l’ultimo dono che ci fecero gli dei prima
di morire ridendo a crepapelle quando uno di loro si alzò in piedi e disse:
solo io sono. Quell'uno delimitò il proprio spazio e il proprio tempo con il
riconoscimento di un io e di un altro, un dentro e un fuori, un prima e un
dopo. Ma prima di morire dalle risate gli dei calciarono verso di noi un
pallone, tondo e sferico, immagine perfetta, sensazione perfetta, senza alcun punto di partenza e di arrivo; per
ricordarci che se siamo è grazie ad una narrazione che non è mai cominciata e
pertanto non può mai finire.
Sbiadita la memoria abbiamo cominciato a dimenticarlo, lo
ricordiamo solamente le poche volte che, correndo dietro alla sfera magica,
esondiamo noi stessi e i confini che ci sono imposti. Lo ricordava benissimo Mahmoud Al Sarsak, un ragazzo palestinese che qualche anno fa, inseguendo un pallone che
s’ostinava a rotolare al di là del muro che la politica di conquista
occidentale gli aveva innalzato attorno, inavvertitamente superò la frontiera.
Le guardie armate del calcio moderno lo fermarono immediatamente. Il tempo
pseudociclico del calcio è costruito da muri e barriere invalicabili - gli
dissero -, il calcio oggi non è più libero, è confinato. Parole come dribbling
e finta sono sostituite da rigore e punizione. Il racconto della partita si fa
smisurato, eccedente: squadra e giocatore sono patria e popolo, nel nome di dio
e del potere, non più sinonimo di ricchezza e d’incontro ma di conflitto e di
prigione. Se hai dei confini essi non ti proteggono, ti limitano - continuarono
le guardie -, il tuo campo da calcio è una prigione. E, in base alle leggi dell’oppressore,
lo condussero in galera.
Solo, senza compagni di squadra né avversari con cui
giocare, senza fratelli cui raccontare l’eterna narrazione del calcio, Mahmoud piano
piano cominciò a spegnersi, decidendo di non mangiare più. E anche noi ci stiamo
spegnendo con lui. L’assordante silenzio della sua narrazione è coperto dalle
vacue parole della cronaca del calcio moderno: rigore e punizione, rigore e
punizione, rigore e punizione, rigore e punizione. Per Mahmoud e per tutti i
bambini palestinesi, e non, che nelle terre di mezzo del mondo sognano la finta
e il dribbling di un calcio che non conosce ostacoli, muri e confini. La
cronaca (televisiva) dello spettacolo impone all’altro da sé confini economici arbitrari,
e poi ne spiega il valore con termini che hanno perso di senso o che, come gli
dei, sono già morti. Anche Mahmoud sta morendo, come il calcio e il suo
infinito racconto. Alzare il volume del suo silenzio è l’unico modo per
riprenderci la narrazione del calcio e tornare a vivere. Altrimenti moriremo
tutti, rinchiusi nella galera del calcio moderno che, prigioniero di muri e confini
imposti, non è più capace di raccontare alcunché.