Henry in maglia Red Bulls se la ride sotto i baffi |
Càpita
che a un certo punto della tua vita, dopo nove ore di volo e un’altra ora buona
di controlli alla dogana, ti ritrovi all’Aeroporto Liberty di Newark, New
Jersey. Completamente solo. In pieno agosto. Con una valigia enorme.
Il primo
impatto con il mondo esterno fuori dall’aeroporto, con quegli States che hai
visto fin da bimbo solo nei film, sono le porte scorrevoli che si aprono e una
ventata calda tipo fon che ti investe, rincoglionendoti ancora di più del jet lag e della sbronza colossale della
sera prima, ché oramai ti eri abituato al clima polare da aria condizionata che
ti aveva accompagnato per le suddette nove ore eccetera. A questo punto,
nessuno può toglierti la soddisfazione di un sacrosanto paglione nell’afa
americana, anche se non sai bene qua come funziona coi divieti. Ti metti buono
buono in un angolo sul marciapiede, sperando che nessuno ti venga a cazziare.
Attorno a te, di gente ce n’è davvero parecchia - molta di più del concetto di
“parecchia” cui sei abituato - ma in fondo Newark non è uno degli scali
aeroportuali più grandi del mondo? Nessuno ti cazzia, anzi, a nessuno frega
proprio niente della tua esistenza, mentre sei lì intento a rimuginare su come
trovare la fermata del bus che ti porterà per soli 15 dollari al Grand Central Terminal
di Manhattan, da dove poi dovrai prendere un taxi e arrivare finalmente al tuo
alloggio nell’Upper East Side.
Nel
casino generale finisci la paglia e cerchi di guadagnare la tua fermata,
scansando turisti, uomini d’affari, gente comune, tassisti e quant’altro.
Ad un
certo punto, in mezzo alla folla, vedi un lungagnone coi capelli rasati e la
tuta della locale squadra di soccer, i New York Red Bulls. Non ti sembra vero,
ma lo riconosci. Sì, è lui, non c’è dubbio: è Thierry Henry. E nessuno - nessuno - degli astanti lo considera
minimamente. Ti verrebbe da andare a stringergli la mano, se non altro per
pietà. Ma poi ti ricordi che con quella mano ha eliminato da Sud Africa 2010 l’Irlanda del Trap, ed inoltre ti sovviene di quanto in realtà costui ti sia
sempre stato solennemente sulle palle (le eterne sfide Italia-Francia a
mondiali ed europei…). L’istinto a questo punto sarebbe quello di andarlo ad
insultare, ma non è proprio il caso iniziare così la propria vacanza
newyorchese, che ne dici? Imbambolato come un deficiente, lo vedi passare
davanti a te. Andare via.
La sempre sobria Lady Gaga e il rappettone Jay-Z |
E nessuno
- nessuno - degli astanti lo considera
minimamente. E dire che stiamo parlando di uno dei calciatori più famosi del
mondo. Evidentemente, qua, il calcio non dev’essere così seguito. Anche perché
ti renderai conto cosa significhi essere davvero famoso, a New York, quando
Lady Gaga presenta il suo ultimo video in uno studio televisivo di fianco al
teatro in cui ti appresti ad assistere ad un musical, ed il musical inizia con
mezz’ora di ritardo poiché gli spettatori se ne fottono del musical ed escono
anche solo per vederla,
Lady Gaga. O quando Jay-Z una bella sera decide di andare in discoteca e,
camminando per strada, ti trovi davanti a una via transennata dalla polizia,
per via dell'eccesso di folla che si ammassa anche solo per vederlo, Jay-Z.
Il Giants stadium di East Rutherford, NJ |
I New York Red Bulls una volta si chiamavano New York MetroStars. Anzi, per essere precisi, la loro denominazione originaria era New York/New Jersey MetroStars, anche perché con the City that never sleeps ci sono sempre entrati come i cavoli a merenda. La citazione dello Stato sulla riva destra dell’Hudson river fu ritenuta d’obbligo, dato che dal 1995 (anno della loro fondazione) al 2009 hanno giocato praticamente tutte le loro partite per l’appunto in New Jersey, al Giants Stadium di East Rutherford. Dal 1998 si decise poi salomonicamente di chiamarli semplicemente MetroStars, senza indicazioni geografiche. Maglia bianca, poi rossonera (si dice in onore del Milan), i MetroStars fin da subito si caratterizzarono per l’ingaggio di grandi stelle del calcio internazionale sul viale del tramonto, abitudine poi divenuta consueta per tutti i club della MSL, come per altro già era accaduto negli anni ’70 per la NASL. Del primo roster, agli ordini di quell’Eddie Firmani di “cosmosiana” memoria, faceva parte Roberto Donadoni, il primo italiano assieme a Walter Zenga (nei New England Revolution) a tentare l’avventura americana negli anni ’90. Dopo di lui, tra il 1997 e il 2005, fu il turno di Branco, Lothar Matthaeus e Youri Djorkaeff, solo per fare alcuni nomi, oltre che di alcuni tra i migliori esponenti del soccer USA (Ramos, Meola, Lalas) ed insospettabili ex della Serie A (Nicola Caricola ed il colombiano Adolfo Valencia). Completano il quadro delle celebrità alcuni coach del calibro di Bora Milutinovic e Carlos Parreira. Nonostante i grandi nomi, niente da fare: i migliori risultati ottenuti dai MetroStars negli States furono un primo posto nella regular season della East Conference nel 2000 e una finale di US Open Cup nel 2003, persa contro i Chicago Fire. Nel 2004, però, i MetroStars riuscirono nell’impresa di diventare la prima squadra della MLS in assoluto a vincere un torneo al di fuori dell’America del Nord. Si trattava della Copa La Manga, un torneo invernale giocato ogni anno a Murcia, Spagna, tra club che militano in campionati strutturati sul calendario solare. I MetroStars ebbero la meglio sui norvegesi del Bodø/Glimt,
sulla Dinamo Kiev e in finale sul Viking, altra squadra norvegese. Trionfo.
L'Altes Rathaus di Lipsia, capolavoro dell'architettura rinascimentale tedesca |
Oggi i
MetroStars non esistono più. Nel 2006 la Red Bull, azienda austriaca
produttrice del famoso energy
drink, ha comprato la società, e, con un’operazione commerciale già
effettuata l’anno precedente con l’Austria Salisburgo, ne ha cambiato nome,
simbolo e colori (a quanto sembra, senza suscitare le ire dei tifosi come nel
caso austriaco). Da allora ci sono i New York Red Bulls: via la maglia
rossonera, via lo stemma con i grattacieli o quello successivo, più “europeo”,
ora la maglia è biancorossa (blu in trasferta) con i due enormi tori rossi ai
lati che tutti conosciamo. I Red Bulls possono inoltre contare, oltre al
Salisburgo, su diverse squadre “gemellate” da questioni di proprietà e sponsor:
l’omonima squadra/B di New York, che milita in un campionato USA
semiprofessionistico, il Red Bull Lipsia, il Red Bull Brasile ed il Red Bull
Ghana. I grandi nomi (Rafael Marquez, Henry) continuano a venire attratti dalla
Grande Mela, forse ignorando che, nonostante il cambio di denominazione, la
base geografica della squadra è rimasta identica. Dal 2009, infatti, è stato
abbandonato il Giants Stadium per
la Red Bull Arena di Harrison, città che è anche l’attuale sede del club,
situata invariabilmente in New Jersey. Oltre alle locations, nemmeno i risultati
sono cambiati con la nuova proprietà. Negli ultimi sei anni i Red Bulls hanno
raggiunto solo una finale nei playoff del 2008 (sconfitta contro i Columbus
Crew), un primo posto nella
regular season della East Conference nel 2010 ed una qualificazione alla CONCACAF
Champions League dell’anno successivo (con relativa eliminazione al primo
turno). Forse anche perché - al di là dei grandi nomi - al momento attuale, i
due giocatori più rappresentativi del club sono lo semisconosciuto Mike Petke
per numero di presenze ed il colombiano José Angel per numero di gol segnati.
A quanto
pare, i MetroStars e poi i Red Bulls dispongono anche di una tifoseria
organizzata, con tanto di inno e rivalità con i New England Revolution di Boston ed i
Philadelphia Union. Ma la squadra più odiata dai supporters dei Red Bulls è sicuramente il DC
United, specialmente da quando nell’incontro di ritorno della regular season
del 2006 (la cosiddetta Atlantic Cup), il giocatore dello United Alecko
Eskandarian, dopo aver segnato il primo gol del match, si recò a bordo campo e sorseggiò una lattina di Red Bull/energy drink per poi sputarlo a terra in segno di disprezzo.
Alecko Eskandarian si bulla come un bimbo scemo |
Nelle due
settimane successive all’incontro con Henry, per tutti i cinque boroughs di NYC, non un segno della presenza di
una locale squadra di soccer, se non qualche maglietta del suddetto Henry in un
angolo buio al piano interrato di un anonimo negozio di articoli sportivi sulla
3rd Avenue. Per il resto, a chiedere dei Red Bulls, sei finito a farti vendere
la bibita, o in alternativa a far credere che t’interessassi di basket (“Chicago Bulls?” “No, no: New York RED Bulls” - nel contempo venendo
considerato così scemo da aver scambiato New York con Chicago). E a specificare
che si trattava di una squadra di calcio, “soccer team”, sei spesso
riuscito a far cadere il discorso nell’incomunicabilità TOTALE con il tuo
interlocutore, il quale ti sembrava avesse soltanto un grosso punto
interrogativo stampato in faccia.
Dopo
qualche tempo di permanenza, a chiedere in giro della squadra locale gliel'hai
data su, ma a quel punto, sui Red Bulls e su Thierry Henry che se ne esce
dall’aeroporto di Newark nel completo anonimato, forse, una cosa l’hai capita.
Sarà il discorso del New Jersey. Sarà che a New York giocano già gli Yankees, i
Mets, i Giants e i Knicks. Ma quando hai iniziato a notare, ad ogni angolo di
Manhattan, Brooklyn Heights e giù fino a Coney Island, gli adesivi con lo
stemma dei New York Cosmos, ti sei reso conto con certezza quasi assoluta che
un fantasma stava aleggiando nella Grande Mela: un fantasma il cui nome era
Beckenbauer, Pelé, Chinaglia. Finché poi, ad informarti bene, hai scoperto che
il fantasma avrebbe aleggiato ancora per poco tra streets ed avenues,
parchi e grattacieli, West Village e Queens.
Ché,
dicono i beninformati, dal 2013 la franchigia Cosmos sarà regolarmente iscritta
alla MLS.
Ed
improvvisamente ti è stato tutto chiaro.
I tre Cosmos più famosi |