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giovedì 23 ottobre 2014

Antônio Dumas e la multi-nazionale della Guinea Equatoriale


«Tra l’altro, e parlo di quella parte di tribù Obiang
che vive in Spagna, stanno cambiando i nomi di questi bambini.
Un tempo ci chiamavano Pedro, Josè…
adesso Sheryl, Brooklyn… Brooklyn Obiang… mah»
(Pedro Obiang)


Antônio Dumas aveva un sogno. Voleva creare un altro Brasile nel cuore dell’Africa.
Una carriera da giocatore discreta con qualche stagione nel prestigioso Santos e una toccata in Portogallo, nell’Olhanense e nel Chaves, per il mondo era Toninho. Una decennale carriera da allenatore nei campionati federali brasiliani, prima della chiamata da Libreville: c’è da occupare la panchina della nazionale gabonese. Tempo di salutare i ragazzi della Lagartense, fresca vincitrice del Campeonato Sergipano (già vinto nel 1989 con il Guarany) Dumas si tuffa nella nuova avventura guidando la nazionale che conquista la qualificazione nella prima Coppa d’Africa del nuovo millennio. La squadra esce al primo turno, ma Dumas ha il coraggio di lanciare nella mischia il giovanissimo Shiva N'Zigou che a 16 anni e 93 giorni segna contro il Sudafrica e tutt’ora è il più giovane ad aver segnato nella manifestazione continentale.

Toninho, giovane e fascinoso

Dumas non ottiene il rinnovo, nonostante la vittoria nella Coppa Cemac del 1999, ma si sposta di poco e trova un ingaggio come commissario tecnico della nazionale di São Tomé e Príncipe: in questo minuscolo arcipelago, dove il portoghese è la lingua ufficiale (l’indipendenza da Lisbona è del 1975), Dumas comincia ad elaborare il suo piano. Ma la federazione saotomana non ha fondi e il calcio è poco più di un passatempo. Dumas prende armi e bagagli e si trasferisce in Togo. A Lomé il calcio è uno sport molto popolare e la nazionale è in piena crescita. In vista ci sono le qualificazioni alla Coppa d’Africa e soprattutto ai Mondiali del 2006. Dumas ha la possibilità di allenare una stella come Emmanuel Adebayor ma soprattutto ha l’appoggio della federazione e qualche soldo per lanciare il suo progetto. Nel 2004 vengono nazionalizzati ben sei calciatori brasiliani: Cristiano Alves Pereira, Fábio “Fabinho” Pereira de Azevedo, Fábio de Jesus Oliveira, Alessandro “Bill“ Faria, Hamílton Hênio Ferreira Calheiros, Jeferson “Mikimba” Paulo Rodrigues de Souza. Minimo comun denominatore? Nessuno ha mai avuto un rapporto con il Togo. Arrivano a Lomé, giocano con la nazionale e tornano con le tasche piene di soldi in Brasile. Dumas crede fortemente nella sua “missione” di brasilianizzazione della nazionale africana e imposta la squadra sull’estro di Alessandro “Bill” Faria, sei presenze e tre reti con la nuova nazionale. I veri togolesi però non ci stanno e con il capopopolo Adebayor si ribellano. Finisce dopo due anni e appena sei nazionalizzazioni la prima grande occasione di Dumas. Il nuovo tecnico, il nigeriano Stephan Keshi dichiara “dei brasiliani non so nulla, conosco a malapena i loro nomi” e i “naturalizzati” vengono rispediti in Patria… quella vera! Con Keshi il Togo ritorna togolese e si qualifica ai Mondiali. Impresa incredibile.

Volti del Togo Mundial

Tra il 2009 e il 2010 la federcalcio togolese ha richiamato più volte in nazionale il solo Hamílton ma per tutta una serie di circostanze (squalifiche, convocazione arrivata in ritardo, mancate comunicazioni) il rientro in nazionale non è mai avvenuto. Il brasiliano era stato anche incluso nella lista dei convocati per la Coppa d’Africa 2010, ma ha rifiutato la convocazione preferendo un periodo di vacanza nel Sergiepe. Grazie a questa scelta ha evitato di essere vittima dell’attacco terroristico che ha coinvolto la nazionale togolese l’8 gennaio 2010.
Il progetto “Brasile nel cuore dell’Africa” affascina il potente di turno, in questo caso, Teodoro Obiang, padre della Guinea Equatoriale, in carica dal 1979, che con la longa manus del figlio, Ruslán Obiang Nsue, ottiene il “si” di Dumas che ha finalmente carta bianca. Da quelle parti la nazionale non è al livello di quella togolese e un pò di supporto da una “legione straniera calcistica” è ben accetta. Il lavoro era già stato iniziato da Óscar Engonga, fratello del centrocampista del Maiorca Vicente, che durante il 2003 era riuscito a coinvolgere alcuni spagnoli di origine guineequatoriana a giocare nella nazionale d’origine: i primi ad accorrere sono i fratelli Alberto e Juvenal Edjogo-Owono, Sergio Barila, José Luis Senobua, Andrés Malango e Iván Zarandona. Fin qui nulla di male visto che ritornano in Patria i figli del colonialismo, che hanno discendenza diretta dalla etnie principali del paese, i fang e i bubi.
Pronti via, tempo di trovare la Guinea corretta (sul mappamondo ce ne sono tre con Guinea e Guinea Bissau) e Dumas chiama otto brasiliani, che nel giro di qualche ora ottengono il passaporto guineano e finiscono in campo: Danilo Clementino, Ronan Carolino Falcão, André Neles, Daniel Martins, Léo Quirino, Fernando Alves dos Santos, Anderson Ferreira ed Alex. La squadra ottiene finalmente buoni risultati: «Oggi la Guinea Equatoriale ha finalmente un numero di giocatori sufficienti per una grande squadra nazionale». Dumas è scatenato, il governo è compiacente, la federazione è complice e sono pronte altre nazionalizzazioni. Ma se Dumas voleva ricreare un secondo Brasile, il giovane Ruslán ha in mente un progetto ancora più grande: “voglio le Nazioni Unite del calcio”. Alcune incomprensioni e, sembra alcuni mancati pagamenti, provocano l’allontanamento del tecnico che rientra in Brasile (tutt’ora, però, dichiara: «vi assicuro che il mio cuore è con la Guinea Equatoriale, come la mia pelle»), non prima di aver portato a casa il titolo della Coppa Cemac (Comunità monetaria ed economica del Centro Africa, che riunisce Camerun, R.D. Congo, Ciad, Gabon, Rep.Centrafricana e Guinea Equatoriale), primo trofeo messo in bacheca dalla Nzalang Nacional. Ma Ruslán non bada a spese e vuole ulteriormente rafforzare la sua nazionale, radicalizzando i metodi poco ortodossi di Dumas, che ha tracciato la strada. L’incarico tecnico è affidato ad uno spagnolo, Quique Setién, sostituito l’anno successivo dal brasiliano Jordan de Freitas, prima dell’arrivo dell’idolo di casa Vicente Engonga (biennio 2009-2010).

Campioni CEMAC!

Attualmente le “nazionalizzazioni facili” della Guinea Equatoriale sono sotto indagine dalla FIFA ma non sono finite, anzi sono in pieno fermento. Dopo aver cambiato altri commissari tecnici, affidando la panchina anche a Henri Michel (che ha criticato questo malcostume ed è stato allontanato), Gilson Paolo e Andoni Goikoetxea (attualmente in carico), la squadra è riuscita finalmente a centrare la prima partecipazione, come paese ospitante, alla Coppa d’Africa del 2012, raggiungendo addirittura i quarti di finale (eliminando una “grande” come il Senegal) e il 16 novembre è riuscita a limitare i danni contro i campioni del mondo della Spagna con la storica sconfitta per 2-1 a Malabo. La rete è stata messa a segno da Jimmy Bermúdez, difensore centrale nato a Puerto Tejada, nel sud della Colombia, contattato tramite Facebook. Ruslán l’ha premiato con 50.000 euro oltre ai 3.000 euro che prende a gettone.
Dei 23 convocati per la manifestazione continentale, solamente due sono nativi della Guinea Equatoriale, il portiere Felipe Ovono e il difensore José Bokung “Colin”. Gli altri arrivano dalla Spagna (10 giocatori), dal Camerun (5), dal Costa d’Avorio (2), dal Brasile (1), dalla Colombia (1), dalla Liberia (1) e dalla Nigeria (1). Il veterano dei “nuovi guineequatoriali” è il portiere Danilo Clementino, trentunenne pernambucano di Caruaru. Ai tempi di Pangea, quando la terre emerse erano coagulate in un’unica piattaforma continentale, la città di Caruaru sarebbe stata contigua con la Guinea Equatoriale. Ora c’è un oceano di mezzo, che Danilo ha attraversato almeno trenta volte, il numero delle presenze con la maglia numero 1 della nazionale Nzalang.

Sulla geografia non si scherza

La lista dei naturalizzati in questi ultimi dieci anni è interminabile, la più completa (ma comunque parziale) è quella riportata da Wikipedia che riporta ben 87 nazionalizzati, con una prevalenza di 37 brasiliani, seguiti da 21 camerunensi, 8 colombiani, 5 nigeriani, oltre a Mali, Liberia, Costa d'Avorio e Burkina Faso. Sono 14 invece gli spagnoli naturalizzati in quanto discendenti di guineequatoriani. E in rampa di lancio ci sono anche il sampdoriano Pedro Obiang e il centrocampista Omar Mascarell, del Real Madrid Castilla, che però non hanno ancora sciolto le riserve. Obiang è uno dei nipoti del Presidente Teodoro: «È mio zio… però non ho praticamente rapporti con lui. In Guinea le nostre famiglie sono grandissime, sono tribù. Certi zii e certi cugini non li conosco nemmeno. Una volta ho chiesto a mio padre di farmi l’elenco di tutti i cugini, è uscita una cosa lunghissima».
Ad essere rafforzata con decine di brasiliane e africane è anche la nazionale femminile che riesce addirittura a vincere due volte la Coppa d’Africa (2008 e 2012) oltre ad un secondo posto (2010). E proprio in questa ultima manifestazione è scoppiato il “caso Simpore”, con le due sorelle Salimata e Bilinguisa (nate in Costa d’Avorio, ça va sans dire) accusate di essere in realtà maschi. Le Simpore furono poi diplomaticamente esentate dai Mondiali dell’anno successivo, ai quali prenderà parte Genoveva Anona, autoctono bomber del Turbine Potsdam, anch’essa accusata di transessualismo.

La travolgente sensualità di Paul Pogba... ops... di Salimata Simpore!

Le nazionalizzazioni facili hanno però giocato anche qualche brutto scherzo: nelle sfide contro Capo Verde, valide per le qualificazioni ai Mondiali 2014, la Guinea ha vinto per 2-1 e per 4-3. Fra i guineiani ha giocato lo spagnolo Emilio Nsue, capitano (alla seconda convocazione) e autore di una tripletta nella seconda gara. La FIFA, però, di fronte alle 51 presenze di Nsue nelle nazionali giovanili spagnole ha dichiarato “ineleggibile” l’attaccante e ha punito la Guinea con la doppia sconfitta a tavolino.
Stessa sorte nelle Qualificazioni alla Coppa d’Africa del 2015, contro la Mauritania (0-1 e 3-0): questa volta l’”ineleggibile” è Thierry Fidjeu Tazameta, nativo del Camerun.
Peggio è andata a Claudiney Rincón Ramos che ha rappresentato la Guinea in tre occasioni, ma durante un viaggio nel paese ha contratto la malaria che lo ha portato alla morte a soli 33 anni.
Gioca invece nella primavera dell’Inter (questa stagione in prestito all’AltoVicentino) la giovane stella Jesús Valeriano Nchama Oyono, diciottenne malabeño (nato nella capitale Malabo). Nonostante sia in Italia da quando aveva 2 anni, ha già esordito nella nazionale maggiore, quindi, almeno in questo caso nessuna naturalizzazione.

Jesús Valeriano Nchama Oyono

Chi invece ha già deciso di riempire il proprio portafoglio con qualche soldo facile (1 milione di dollari per il premio dopo una vittoria sulla Libia) adduce le più svariate motivazioni, dalla “patria addottiva” al “ritorno alle radici”. Lawrence Doe, liberiano, ha dichiarato: «Sono un guineano, si prendono cura di me, il governo si prende cura di me. Mi sento molto felice e molto orgoglioso perché anche se sono nato liberiano ora sono un guineano. La Guinea Equatoriale è la mia casa, qui abitano mia moglie e mio figlio». Il brasiliano Daniel Sabino Martins dichiarò: «giocare in questa nazionale è un sogno. Volevo essere un giocatore internazionale e la Guinea mi ha dato questa possibilità». La spagnola Jade Boho ha richiamato le sue radici «Mi sono naturalizzata perché abbiamo radici africane». Il colombiano Roland de la Cruz ha dichiarato di avere parenti che vivono in Guinea, mentre Danny Quendambú ha fatto allusioni al suo cognome, di origine africana. A chi non può utilizzare questa scusa viene incontro la stampa locale che modifica i cognomi per farli sembrare coerenti con i gruppi etnici del paese: Yoiver González Mosquera diventa Zeiver Gonzales Ondo, Luiz de Paula Neto diventa Luis de Pablo Buechebu, Jônatas Paulino da Silva Inácio diventa Jonatas Asumu Mebaha, Mauricio Mina Quintero diventa Mauricio Ondo, Frankin Bama Yangoua diventa Francisco Obama Ondo e Jonathan Mbou diventa Juan Esono Ada. I funzionari della FEGUIFUT (Federacion de Football de Guinea Equatorial) dovrebbero scrivere un manuale!
Severo è il giudizio di Jacinto Elá, nato in Guinea, ad Añisoc, una lunga carriera in Spagna, con alcune capatine in Inghilterra e Scozia e pure qualche convocazione nelle selezioni giovanili delle Furie rosse: «Dopo tanti anni volevo restituire qualcosa al mio paese. Una volta arrivato li ho trovato tante cose che non mi piacevano… Giocatori che non collaboravano, gente che era li per riempire un posto, c’erano persone provenienti da Brasile, Nigeria, Ciad, ecc… Non c’era alcuno collegamento con la Guinea Equatoriale, nulla di serio. Non volevo essere parte di questa farsa e ho deciso di abbandonare dopo aver giocato un paio di partite».

Dio c'è ed è un guineanoequatoriale (naturalizzato):
Diouzer da Cruz dos Santos, detto "Dio"
I casi legati a Dumas non sono però gli unici nel continente nero. Altre nazionali come il Ruanda, la Mauritania e il Niger sono salite agli onori della cronaca per la concessione “rapida” di nazionalizzazioni.
Nel Ruanda hanno giocato i congolesi Taddy Etekiama (alias Daddy Birori, addirittura una doppia identità per lui) e Jerome Sina, l’ugandese Meddie Kagere, l’angolano, rifugiato in Belgio, Joao Elias: l’unica connessione con il Ruanda era il compagno di squadra al Mechelen, Desire Mbonyabucy. Con le “vespe giallo-verdi” hanno giocato anche il congolese Mafisango Mutesa, il camerunense Boubakary Sadou, e il nativo della Repubblica Democratica del Congo Labama Bokota, oltre all’ugandese Manfred Kizito, che ha un fratello, Nestory, che gioca per l’Uganda. Connessioni con il Ruanda? Nessuna, tranne un sostanzioso contratto. Con la Mauritania giocano Dominique Gourville e Yohan Langlet, “contrattualizzati” non appena il loro ex allenatore nelle squadre di club, Noel Tosi, è stato nominato commissario tecnico. Koffi Dan Dowa è il caso eclatante del Niger: nato in Ghana e ovviamente nessun rapporto con la nuova cittadinanza. Spostandosi più ad est e aggiungendo al budget un bel pò di petrodollari il caso da manuale è quello del Qatar che nel 2003 ha dato il via alle naturalizzazioni facili con il supporto dell’allenatore Philippe Troussier: «Ho cercato soltanto giocatori di oltre 25 anni che non hanno alcuna possibilità di essere selezionati nel loro Paese di origine. Il denaro è ovunque e il fine giustifica i mezzi». Da Sebastián Soria, uruguyano, ai brasiliani Emerson Sheik, Marcone e Fábio César Montezine, passando per i ghanesi Mohammed Kasola e Lawrence Awuley Quaye e i senegalesi Abdulla Koni, Mohamed Saqr e Qasem Burhan. Per non parlare di quanto avviene nella pallacanestro con i clamorosi casi del filippino (per un milione di dollari) Andray Blatche e del macedone Borche McCalebbovski (in arte Bo McCalebb). Il caso più simile a quello guineano è la trovata di Antonio Carlos Vieira con Timor Est: dopo il 2011 sono ben 7 i brasiliani che hanno acquisito del neonato paese del Sudest asiatico (Émerson Cesário, Diogo Rangel, Wellington Rocha, Ramon Saro, Paulo Helber, Alan Leandro, Murilo de Almeida). Se non altro est-timoresi e i brasiliani sono legati da un sottile filo rosso caratterizzato dalla lusofonia.

Tutti malriusciti tentativi di copiare il maestro Antônio Dumas. Dilettanti!

Il nostro, dopo le esperienze africane è rientrato in patria (rimane comunque il secondo allenatore brasiliano per squadre nazionali straniere allenate, alle spalle di Carlos Alberto Parreira, con 6 squadre) con la solita pletora di squadre minori (come il Colo Colo di Bahia, solo omonimo del mitico club cileno), dichiara di aver lanciato nel calcio che conta Diego Costa, sergipano pure lui, prima di ritentare una nuova campagna d’Africa, con l’Al Mourada, in Sudan, e, dopo aver rifiutato la panchina del Racing Luxembourg, l’Avenir Sportif de Gabès e nella libica Al Jazeera. I disordini in Siria gli hanno impedito di sedersi sulla panchina del paese arabo e quindi ora si accontenta di insegnare calcio nella guineiana Hafia FC, storica squadra di Conakry: «giochiamo un calcio simile al Barcellona. Il nostro tic-tac è fenomenale» e «stiamo facendo un calcio moderno, cercando qualità e dando una dinamica di calcio totale». Il suo credo calcistico è semplice: «serve un’impronta forte, solida, un calcio in cui tutti combattono assieme, con un solo obiettivo».

Toni Dumas insegna calcio



R.I.P.

lunedì 12 luglio 2010

Simbologia di una vittoria: una divagazione

La vittoria spagnola di questa sera ci consegna un risultato che, almeno, possiede un senso storico. Cerchiamo di tracciare una simbologia a caldo valutando quel poco di Zeitgeist che ha nascosto l'ampollosa e sradicata competizione sudafricana.
Il mondiale si è svolto in un acquario socio-politico, l'Africa è stato solo l'utero dentro il quale il seme planetario del calcio capitalista ha fecondato la dea palla e non è un caso, infatti, che il silente demiurgo di questa competizione sia stato il signore di una teca di vetro. Il polpo Paul con il suo apporto divinatorio ha spazzato via più di due secoli di cultura illuminista, ridando linfa a quella tradizione oracolare che l'era della tecnoscienza aveva bollato come superstizione. Se il calcio è un'ordalia non bisogna avere paura di seguire le tracce del divino, abbandonado quella servetta che è la logica, che ci tiene prigionieri come marionette inconsapevoli.
Il calcio si conferma un'entità rimediale, una via taumaturgica per cancellare i problemi della storia. La vittoria di questo mondiale, infatti, premia lo stato per eccellenza vittima dell'illusione speculativa finanziaria, il fascino indiscreto del moltiplicatore: il niente che nientifica. Il successo spagnolo è anche il trionfo di una nazione che tale non è più, una picaresca danza centrifuga agita le autonomie e spinge al conflitto quasi balcanico la penisola, ma anche in questo caso la pioggia sacra del delirio calcistico lava le ombre della sentenza del Tribunale costituzionale sullo Statuto catalano. Le sofisticate elucubrazioni giuridiche sul riparto di competenze nel sistema delle autonomie non sono nulla rispetto agli squarci di pura politica che si muovono dietro alle immagini di Puyol e Xavi con la bandiera catalana (già ci sono polemiche). Infine, ultimo simbolo: la situazione della monarchia, il futuro Re Felipe castrato dalla tenaglia femminile della madre severa e austera e della moglie bidimensionale e anoressicamente plebea. Il profilo bovino dei borbone oramai non è altro che l'effige di un mondo in decadaenza, mosso esclusivamente dall'eterno femminino che veste gli abiti del demonio travestendosi da madre longeva.
 
In conclusione mi preme commentare la vittoria spagnola attraverso gli occhi e le gesta di un assente che proprio in questi giorni ha saputo tornare sulle cronache con una gestualità minima, da torero in piena faena: Raul Gonzales Blanco. Al di là dei giudizi sul giocatore, sul quale peraltro ci siamo già intrattenuti, colpisce come l'inizio del ciclo vincente della Spagna coincida col suo abbandono, o meglio, con la sua cacciata. Come quando nel Regno di Kasch si sacrificava il sovrano quando le stelle raggiungevano una certa posizione. Come in un vigoroso crescendo la stessa scomparsa fisica di Raul dal calcio spagnolo avviene proprio nella settimana della scalata mondiale della sua nazionale. La notizia più interessante degli ultimi giorni è, infatti, il passaggio del capitano del Madrid allo Schalke 04. Perché parlare di lui ora? Perché Raul rappresenta la vertigine della spagna post franchista, l'ascesa all'olimpo di un ragazzo semplice (nato nel '77 a due anni dalla scomparsa del Caudillo) cresciuto con gli umili colchoneros e divenuto simbolo del ricco e potente Real. Raul è la Spagna prima della crisi, gli occhi tristi resi ricchi dalle frivolezze del capitale. Sacrificato dai suoi stessi inventori per rigenerare una nazionale (e una nazione) l'ex n. 7 del Madrid ha saputo trovare la sua catarsi scegliendo una destinazione calcistica agli antipodi con i fasti della sua vita recente, ma forse molto prossima con la sua infanzia proletaria nella spagna della transizione.

In un tempo in cui i giocatori affermati cercano il facile ristoro dell'esostismo andando a giocare in america o nei paesi arabi (ultimo esempio, oltre a Cannavaro, è Henry pronto a concedere il suo charme francese, abbinato ad un look piacente alla Obama, alla MLS statunitense), Raul invece ha deciso di lottare ancora, e di farlo nel posto più brutto d'europa: il bacino della Ruhr, ovvero dove il sangue della storia incontra il sudore, e la fantasmagoria delle merci e dei prodotti creata da Marx diventa la linea di confine della politica di potenza europea. Per questa decisone di andare a lottare nello Schalke (sia pure ricco grazie a "papà" Gazprom) il figlio della Madrid proletaria va rispettato, perché ha saputo cogliere che il vero esotismo che si nasconde nelle pieghe - e nelle piaghe - della vecchia europa; nella sua scelta si nasconde la voglia di cercare quell'Oriente interiore che i romantici sapevano nascondersi in ogni luogo e in Germania in particolare. Forse le ceneri di Raul sacrificato nella sua terra sapranno infondere linfa vincente agli eterni perdenti di Gelsenkirchen, chissà se riconoscerà la sua Spagna quando vi farà rientro.