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mercoledì 6 aprile 2016

Un amore piccolo piccolo



 
Adesso ce l’hanno tutti con Totti - beh, una minoranza invece lo difende, con argomenti tanto appassionati quanto inconsistenti; ma sono le stesse persone che vengono prese in giro dalle pagine facebook anti-gentiste e anti-complottiste, dunque non contano davvero. Perfino Valdano ha detto, del resto giustamente e in maniera intelligente come è solito fare, che Totti dovrebbe riconoscere che è giunto il momento di lasciare. In poche parole, almeno fra le persone non dico ciniche, ma disincantate, fredde, analitiche, è accettato come un dato di fatto che la carriera di Francesco Totti sia finita, e che manchi solo, alla pubblicazione di ciò sulla Gazzetta ufficiale del calcio, la ratifica da parte di Totti stesso. Più Totti aspetta a dichiararsi concluso, più si rivela, invece, immaturo, irrisolto, tutto sommato anche poco sveglio; questo viene detto meno, per ovvi motivi, ma viene comunque detto (anche e soprattutto da romanisti). Esiste insomma, in qualche modo, un movimento di gente che vuol bene a Totti, lo stima come calciatore, e per questo chiede che se ne vada, che la smetta con questo accanimento: perché, razionalmente, non ha senso.

Non che io sia in disaccordo sull’analisi: atleticamente, quarant’anni sono quarant’anni. La genetica e la dedizione assoluta hanno nascosto molto a lungo il tempo, ma il tempo, per sua natura, alla lunga vince: e su Totti infine ha vinto. Non ci sono più le condizioni sportive per far partire Totti titolare in nessuna partita della Roma, mi pare; e non ci sono mai state le condizioni tecniche per farlo giocare dieci minuti alla fine, quasi fosse un Altafini. Né mi pare che un simile utilizzo sarebbe, come dire?, opportuno. Non voglio perciò dibattere sul fatto tecnico - Totti è giunto a fine carriera - né sulle sue conseguenze logiche - dovrebbe accettarlo e smettere; si comporta in maniera sciocca se non lo fa. Ciò che mi stupisce è con quale autorità morale la Roma - in senso ampio: società, proprietà, giornalisti, tifosi, insomma l’ambiente - possano chiedere a Totti una rettezza e un’onestà intellettuale che loro, nei suoi confronti, non hanno mai avuto.

La carriera di Totti, dicevamo, è di fatto finita. Ma è mai iniziata davvero? Io, sinceramente, credo di no. Ci si appella al tempo, criterio inflessibile e imparziale, per indicare al vecchio campione l’uscita, adesso che, di base, non è più utile alla squadra ed è anche un po’ imbarazzante per la società; ma ci si dimentica che far sparire il tempo è stato il trucco, e l’inganno, che ha fatto sì che Totti passasse alla Roma questi venti anni, i suoi venti anni, gli unici venti anni che avrebbe potuto dedicare al calcio e a farsi ricordare.


Non c’è niente di speciale in questa storia: anche la fattura che ha irretito Totti, l’incantesimo che gli ha nascosto il tempo, è stato l’inganno solito che gli esseri umani adoprano sempre (volendolo o no, sapendolo o no) per questo genere di cose: l’amore. Il Totti che esordisce nella Roma è un ragazzino delle superiori; e il rapporto fra i due amanti rimarrà sempre di quel genere lì. La Roma è la fidanzatina del liceo di Totti: solo che sono passati appunto vent’anni e più da allora, e tutto questo non è romantico, anzi non lo è mai stato. Perché Totti, in questi vent’anni, è cambiato tanto, ha lavorato, si è migliorato: la Roma, tutto sommato, no. Il rapporto fra i due si è fatto dunque sempre più sbilanciato, col tempo, sempre più assurdo; e davvero, se era bello e dolce guardare Totti nella prima Roma di Zeman, un ragazzo forte e veloce e ancora immaturo in una squadra che correva tanto e sbagliava tanto, se tutto questo era bello e dolce come guardare l’amore di due ventenni, c’era invece tanto di sbagliato, di fastidioso, nel contemplare Totti anni dopo, un giocatore tanto più grande, in una Roma che si restringeva a vista d’occhio, nell’ultima Roma di Capello che smobilitava o in quella orribile annata piena solo di allenatori. Quando si parla di Roma (squadra, città) si finisce sempre a parlare di derby: ma ditemi voi se non vedete, come me, la differenza amara tra quel “Vi ho purgato ancora” (di cattivo gusto, indubbiamente, e sciocco; ma di uno sciocco genuino) e l’orribile esultanza sulla telecamera, sei anni dopo, in un derby di cui in fondo non fregava nulla a nessuno, perché era la toppa tardiva e inutile a uno dei capitoli più squallidi della storia sportiva romana.

L’unico modo che la Roma aveva - e che ha effettivamente utilizzato - per tenere Totti, un personaggio tanto più grande di lei e in fondo inadatto a lei, era l’amore; ma non più l’amore romantico, l’amore fresco, bensì l’amore immorale e morboso. E quell’inganno orribile per cui si diceva - tutti lo dicevano: tifosi, giornalisti, società - che Totti avrebbe giocato per sempre nella Roma, pur sapendo che sempre nel calcio (nella vita) non esiste, e che ogni giorno in giallorosso era un giorno in meno con la maglia della squadra o delle squadre in cui Totti avrebbe potuto scrivere nel metallo dei palmares la sua grandezza indubbia, ma a cui forse, domani, non crederà nessuno.

Il problema è che il calcio è uno sport di squadra. Fra trent’anni, fra quarant’anni, Totti sarà un calciatore che ha vinto uno scudetto (e, Deo gratias, un mondiale): sarà difficile convincere gli appassionati di calcio di allora, i giovani che leggono, guardano i filmati, che Totti era tanto più forte di praticamente tutta la sua generazione. Chi lo dirà sarà un originale, un cretino, o al limite uno di quelli che vanno a tutti i costi controcorrente; un romantico, diranno i più bendisposti. Ma è romantico, questo? È romantico che Roma e la Roma, che lo hanno amato, abbiano legato Totti a una dimensione che non era la sua? Secondo me fa schifo. Tutta la carriera calcistica e passionale di Totti  sono state un eterno scambio risentito, quello scambio che tutti noi conosciamo bene, fra una fidanzatina che è rimasta sciocchina, immatura, in ultima analisi inadatta, e un uomo che ha studiato, che va verso la vita, che ha un grande futuro: se le cose fossero andate come dovevano andare, il rapporto si sarebbe spezzato, e Totti sarebbe stato libero, libero di essere grande, grandissimo davvero. E poi avrebbe potuto guardare con affetto, con tenerezza, anche con gratitudine al suo primo amore; così, tutto affoga nel rancore, nell’aver compreso troppo tardi che non c’è più tempo, che tutto il tuo tempo è stato sottratto, e non ce ne sarà altro. Con l’ovvio ma doloroso paradosso che la Roma, essendo una società di calcio e non una persona, ci sarà ancora, e potrà perfino decidere di maturare, se riesce e se vuole, di migliorarsi, di essere per qualcun altro ciò che non è potuta essere per Totti, ossia una compagna all’altezza; ma Totti non ci sarà più, Totti, il meraviglioso campione che tutti coloro che amano il calcio hanno amato e amano, Totti invece è finito, finito in questo modo qui, senza gloria, e con in più la colpa di non aver accettato da uomo che tutta la vita l’abbiano trattato da ragazzino.


Vent’anni e passa. Vent’anni sono, per dire, Iliade e Odissea; ma certi eroi incontrano Penelope, altri sono fermati da Circe. Sono, senza dubbio, casi; è umano che ne capitino, ma sarebbe disumano non lamentarsene. Non che non ci siano stati effetti positivi di vent’anni in cui a Totti hanno bloccato il tempo: pensiamo all’arrivo di Spalletti nel 2005, quando Totti era una bellissima ma non immensa mezza punta di 29 anni, che come bellissimo ma non grandissimo sarebbe stato archiviato. E invece, a 29 anni, Totti cambia come un ragazzino, diventa contemporaneamente uno dei migliori attaccanti d’Europa e uno dei più grandi registi bassi, nella stessa squadra e nello stesso tempo, poi va a vincere un Mondiale con un pezzo di ferro nella gamba.

Quello sembrava un Totti nuovo, cui nulla era precluso; ma i limiti dello spazio e del tempo erano invece esattamente gli stessi di sempre. Permettetemi di inserire qui un piccolo paragone, che spero non cada a sproposito: prendiamo Zinedine Zidane. Zidane, che era un giocatore sopraffino, con un fisico da atleta che stonava un po’ con la sua grazia, ma che invece era il segreto che gli permetteva di essere Zidane più a lungo e meglio di un altro trequartista; Zidane che aveva il temperamento nervoso e insofferente di chi sa di valere, e le reazioni sciocche di chi vuole sempre valere; Zidane, che segnava quando c’era da segnare e faceva segnare sempre. Ma tutto questo, comprese le sciocchezze, le reazioni, le meschinità occasionali, non vale forse anche per Totti? E perché allora il gol dei trent’anni, della maturità, il gol che riassume una carriera, per Zidane è quello al Bayer (aveva 30 anni meno un mese) e per Totti quello alla Samp (aveva 30 anni e due mesi)? Tolte le spiegazioni stupide e false, quali la maggior semplicità del segnare alla Samp (quel gol lì!) o altre scempiaggini, resta solo, ed è immenso, il senso d'ingiustizia.

Francesco Totti, nel 2016, adesso, è in torto, forse in torto marcio; come sempre accade ai buoni che sono stati fregati in quanto buoni, reagisce in maniera nevrotica, rozza, non sa spiegare le proprie ragioni, o forse non ne ha più. È un uomo a cui chiedono ragionevolezza, ora che lui non serve più, gli stessi che gli hanno chiesto per vent’anni amore, cioè il contrario della ragionevolezza. Ma forse voi direte: poteva, e doveva, pensarci lui. Gli uomini risolvono da sé le proprie questioni, e sanno sciogliere i legami stretti e dolorosi, quando devono, e riconoscere l’amore dall’ossessione e dall’alibi. Ma provateci voi a liberarvi di un amore che si chiama Roma, con le sue braccia lunghe, infinite; provateci voi ad accettare e a dire a voi stessi che quello che pareva il vostro sogno era un incubo, e che il vostro paradiso era, in fondo, una gabbia.

giovedì 24 aprile 2014

L'Adolescenza, la Rivoluzione e Mattia Biso

 
 
 
Non sono mai stato una di quelle persone con un film preferito; una di quelle persone da canzone del cuore o da gruppo musicale per il quale pagare qualsiasi cifra pur di vederlo dal vivo. Probabilmente per la stessa ragione, non sono mai riuscito a mettere su un altarino particolarmente alto una qualsivoglia personalità, una sorta di fonte d’ispirazione. Da quando il mio maestro di musica delle medie mi raccontò di come visse la morte di John Lennon - senza uscire di casa per settimane e ascoltando fino allo sfinimento tutti i dischi in cui il suo idolo aveva piazzato anche solo un mezzo accordino - mi chiesi come una persona potesse arrivare a trovare un feeling così forte, una comunione così totalizzante con qualcuno che, sebbene fosse un punto di riferimento intellettuale, era a conti fatti uno sconosciuto. Devo dire che ero anche abbastanza invidioso della cosa e mi chiedevo per quale strano motivo io non fossi mai riuscito a provare, non dico le stesse sensazioni, ma un piccolo, piccolissimo dispiacere per la morte di qualche famoso, e me lo chiesi per tutti gli anni successivi: ogni volta che una persona più o meno nota, che in un certo senso era stata per me “importante”,  finiva all’aldilà, non riuscivo proprio a versare una lacrima, non provavo il benché minimo desiderio di tapparmi in casa e non ero in grado di compiere un’azione o un qualsiasi gesto rituale per esorcizzare l’accaduto.
 
Ma proprio quando mi ero convinto che nella vita non sarei mai riuscito a trovare un’empatia così importante con una persona “famosa” e al tempo stesso sconosciuta, vidi entrare Mattia Biso a San Siro per il riscaldamento. Era il 4 dicembre del 2005 e a Milano c’era la neve.

Momento: facciamo un passo indietro lunghissimo.
 
 
È il mercato di riparazione della stagione 2002-2003, l’Ascoli Calcio sta disputando, come da qualche anno a quella parte, un serenissimo campionato di Serie B. Tuttavia in quei giorni, il suo capitano, uomo simbolo e chi più ne ha più ne metta, Gaetano Jimmy Fontana (fino ad allora 104 presenze e 34 reti con la maglia bianconera) viene ceduto a una Fiorentina fresca fresca dell’acquisto dei Della Valle, che non si capisce ancora bene come diamine si chiami, se Fiorentina 1926 Florentia, Florentia Viola, AC Fiorentina o ACF Fiorentina. Poco cambia, la società è ricca e ambisce a tornare in Serie A ed è per questo che decide di affidare le chiavi del centrocampo all’ex capitano dell’Ascoli. Neanche a dirlo, nel 4-4-2 duro a morire di Aldo Ammazzalorso (ora responsabile del settore giovanile dell’Associazione Sportiva Pineto Calcio, che si barcamena da anni in Eccellenza) manca una pedina fondamentale: il mediano. O, con molto più romanticismo, il centromediano metodista; il ruolo - credo - più affascinante del calcio. Il ruolo dei lenti, di quelli non hanno bisogno di correre dietro al pallone perché fanno correre entrambe le squadre al ritmo che decidono di imprimere ai loro passaggi, il ruolo dei direttori d’orchestra, il cardine del 4-4-2, che nel nostro calcio sta finendo sempre più spesso in soffitta, sostituito da mezzale scorbutiche e trequartisti moderni. Ora, immaginate una piazza come Ascoli, sicuramente non una delle più razionali e fredde d’Italia, privata in un colpo solo del proprio capitano e del custode della propria identità di gioco: psicodramma collettivo. Se avete immaginato senza difficoltà le scene di lutto comunitario che si susseguirono alla notizia della cessione di Fontana alla Fiorentina, potete altrettanto facilmente immaginare con quanti dubbi e con quante perplessità venne accolto l’arrivo di Mattia Biso in terra marchigiana, l’uomo che nei piani della società avrebbe dovuto raccoglierne l’eredità.
 
Anche Mattia Biso era il classico regista, classico nel termine più vero del termine, era quasi vintage: un amplificatore Vox o un basso Rickenbacker, una Giulietta, un cappotto di renna, un pacchetto di Cinnamon. Fu così che i tifosi ascolani, che come ben saprete (e se non lo sapete ve lo dico io) non sono famosi per le posizioni politiche internazionaliste, si videro arrivare, a bordo di una station wagon rossa, un tipo allampanato e dinoccolato, con una cesta di capelli ricci e scuri chiusi in una sorta di chignon più degna di un tizio armato di bolas e boccioni al Primo Maggio che di uno strenuo difensore dell’orgoglio Piceno, con una barba ispida e malcurata e un orecchino d’oro da pirata su ogni lobo. 

Il trasfert, con un me tredicenne che iniziava a prendere dimestichezza con l’adolescenza, fu immediato.

Mattia Biso lo ricordo immobile in mezzo al centro di centro campo, che sventaglia a destra e a manca con una precisione - che la mia memoria al limite della leggenda ha trasformato in - millimetrica il pallone, per lanciare gli esterni di quel 4-4-2 tipicamente ascolano, forse ancor più caratteristico delle olive fritte (dal 1997 ad oggi ricordo ben pochi allenatori che giunti in città abbiano abbandonato questo credo dogmatico, in cui tutti i giocatori - tranne, appunto, il mediano - si muovono come su binari prestabiliti dalla Divina Provvidenza, da un Demiurgo che tutto prevede e tutto sa). Ricordo, negli stralci dei discorsi con gli amici e con gli adulti, di essere stato uno dei pochi a sostenere questo calciatore così atipico. Ricordo, che andavo allo stadio felice di vederlo, che ero contento quando indovinava la giocata e provavo un vero e proprio godimento quando potevo ammirarlo mentre si avvicinava al pallone e, con un equilibrio che sembrava esistere a prescindere dalla gravità e dalla terra sotto i tacchetti, un equilibrio storto e isterico, gli arrivava con il corpo sopra; poi, guardando a destra, incrociava il piatto destro nella direzione opposta, lanciando l’ala o il terzino di turno. Un no-look si direbbe oggi. Era bello perché era iconico, riconoscibile anche a chilometri di distanza e con la nebbia, riconoscibile per questo suo modo instabile di muoversi, per i calzettoni bassi a sfidare l’autorità costituita e per la capigliatura stile dottor Socrates. Ecco, il Dottore: per me Mattia Biso in quegli anni che mi fecero entrare nell’adolescenza e conoscere la musica rock e le droghe leggere, era una sorta di eroe proletario, l’emblema di una rivoluzione fantasiosa che si compie con la semplicità di un gesto quotidiano, di una rottura dei soliti schemi narrativi ed estetici, era la ribellione di Woodstock e di Che Guevara che batteva le punizioni contro la Ternana. 

I due anni di Serie B vennero vissuti con alti e bassi. Ad ogni “Quanto cazzo è lento” che esplodeva dai distinti quando perdeva un pallone, io vedevo soltanto un passo falso della storia, ad ogni “È il decimo lancio che sbagli” io vedevo i partigiani ritirarsi sulle montagne pronti per sferrare un nuovo attacco. Il Sol dell’Avvenire era alle porte e io mi sentivo uno dei pochi fortunati che se ne stavano accorgendo. A conti fatti, il Sol dell’Avvenire ad Ascoli arrivò davvero: nella stagione 2004-2005 la panchina bianconera venne affidata all’ex calciatore, punta arcigna, Massimo Silva e a un giovane dalle belle promesse di nome Marco Gianpaolo. Nonostante una partenza non brillantissima, l’Ascoli centrò la qualificazione ai play off, dove, però (mentre io ero in una gita in Sicilia, condita da vino rosso e pomiciate) perse contro un Torino agguerrito e determinatissimo a tornare in Serie A. Fu lì però che vidi la manifestazione della Provvidenza: non solo il Geona primo classificato venne retrocesso, ma il Torino e il Perugia, rispettivamente secondo e terzo, fallirono. Fu così che l’Ascoli, con una piroetta degna dello Steven Bradbury più fortunato, durante un’afosa estate del 2005, si trovò magicamente in Serie A. 
 

In quella stagione però Mattia Biso non trova spazio, chiuso da una coppia di mediani robusti e pelati, Guana e Parola, centrocampisti rocciosi necessari a far legna in mezzo al campo per sostenere due ali offensive come Foggia e Fini e due terzini di spinta come Del Grosso e Comotto. Poi, aimè, forse la Serie A ha dei ritmi troppo veloci per un giocatore che ha bisogno di pensare e immaginare tutto prima di trasformare ciò che ha in mente in atto: lancio, tiro, stop. Tuttavia, in un trionfo di corsi e ricorsi storici arriva l’esordio in Serie A: è il 6 novembre del 2005. Si affrontano Fiorentina e Ascoli, ma Fontana è già a Napoli. La partita si gioca a porte chiuse perché nell’esultanza della vittoria casalinga contro la Sampdoria di qualche giorno prima, un razzo di segnalazione navale è partito dalla Curva Sud: una parabola perfetta, una fune rossa e fluorescente che attraversa tutto il terreno di gioco in una manciata d’istanti che per i presenti sembrano un’ora. Poi lo schianto sulla gradinata semi deserta della Curva Nord. Una signora viene colpita da una scheggia del razzo frantumatosi su quei vecchi scalini di cemento armato; perderà un dito o forse un occhio, o forse nulla - non ricordo. È così che in un Del Duca deserto per questo eccesso di entusiasmo, al sedicesimo del secondo tempo di Ascoli-Fiorentina, Mattia Biso sostituisce Tosto per il suo esordio in Serie A. Io sono a casa, sul divano. 
Il calendario corre, l’Ascoli pareggia uno a uno al Bentegodi e poi, con lo stesso risultato, in casa contro il Palermo. Biso parte titolare nella prima partita - “Uno spettro si aggira per la serie A” - ma viene sostituito all’ottavo minuto del secondo tempo - la Rivoluzione può aspettare. Contro il Palermo invece non vede neanche la panchina - Il mio Trotskij, mandato in esilio, colpevole del suo passo utopico e della sua Rivoluzione Permanente. 

Poi, il giorno in cui la storia della gente comune incontra quella con la S maiuscola, la storia dei libri e dei bassorilievi di marmo.
 
È il 4 dicembre del 2005 e io sono un quindicenne scazzato in trasferta a Milano con il padre e gli amici del padre. Sotto la Madonnina fa un freddo cane e nevica. Tira un vento gelido che come raffiche di mitra ti schiaffeggia la faccia, con una violenza che giustificheresti soltanto in seggiovia. La strada per arrivare a San Siro non è poca o meglio, non è poca per me che sono abituato ad andare allo stadio a piedi in cinque minuti e che ancora non immagino la difficoltà di raggiungere l’Olimpico il sabato sera. San Siro è meraviglioso, un gigante di cui intuisco il design futuristico per i tempi che furono, che si fa strada a manate da una nebbia densa e bagnata, circondato dalla luce livida dei lampioni che virano sull’arancio. Salgo al secondo anello e guardo i giocatori entrare in campo per scaldarsi. Per me che fino all’anno prima tifavo l’Inter, per me che avevo pianto il Cinquemaggio e che ero rimasto immobile davanti a un Ronaldo abbattuto in area di rigore, per me che mi ero esaltato nel vedere Ze Elias con la maglia rossoblu in un Ascoli-Genoa di serie B di qualche tempo prima, era una sfida ideologica e politica, prima ancora che calcistica. La piccola squadra della tua città, costruita in pochi giorni prima di Settembre, quando gli stabilimenti balneari si iniziano a svuotare, che arriva a San Siro. Un sogno. Avevo vissuto gli anni di C1 e di B con i racconti di mio padre sull’Ascoli del record di punti in Serie B, con nella mente le scorribande di una squadra provinciale abilmente costruita da Rozzi e Mazzone, contro le grandi di Serie A e ora, finalmente, ero in piedi alla Scala del Calcio, pronto ad applaudire.

Quell’Ascoli non sarebbe stato un agnello sacrificale, perché Silva e Giampaolo avevano messo in piedi una squadra ben disposta in campo, che giocava un calcio semplice ed efficace, il giusto equilibrio tattico che ti faceva credere che nessun risultato fosse mai scontato. Ero in piedi, alla Scala del Calcio, quando vidi entrare questo capellone dinoccolato con i calzettoni bassi e gli scarpini neri. Cosa ci faceva lui in questo santuario del calcio borghese? Lui che sarebbe stato più degno di un Valle Occupato? Lo vidi scaldarsi e per tutto il tempo seguii con gli occhi lui e solo lui; dall’altra parte della linea mediana c’erano gli Zanetti, i Veron, i Figo, i Recoba ma io non potevo fare a meno di guardare quella corsa svogliata e così fottutamente proletaria. A un tratto Biso si staccò dal gruppo palla al piede, lo vidi percorrere una ventina di metri, oscillando, come se il suo baricentro venisse continuamente spostato prima alla destra e poi alla sinistra della sua spina dorsale. Lo vidi accarezzare una dozzina di volte il pallone con l’esterno del piede, entrare in aria di rigore e, all’altezza del dischetto, calciare verso la porta vuota: GOL! Mattia Biso aveva messo una palla in rete a San Siro. E poco m’importava che la partita non fosse neppure iniziata, ma Mattia Biso aveva segnato a San Siro e io ero contento per lui. Ero contento perché aveva fatto ciò che avrei fatto anch’io, quindicenne scazzato. Si era allontanato dal gruppo e aveva segnato a San Siro. A lui, come a me, non interessava che fosse solo il riscaldamento. 

La Rivoluzione va prima immaginata.
 
Biso restò in campo per tutti i novanta minuti. L’Inter vinse uno a zero con una punizione all’incrocio di Adriano al 24’ del primo tempo, ma cosa importava? Biso aveva segnato ed entrambi sapevamo che depositare una palla in rete a San Siro per un ragazzo che fino a qualche anno prima aveva giocato con Tempio, Faenza, Fidelis Andria, Mestre, Lecco, Carrarese era più importante di qualsiasi punto assegnato dalla Federazione Capitalista. 

La Rivoluzione prima si immagina e poi si compie e io la vidi manifestarsi sotto i miei occhi, in tutta la sua forza deflagrante; ancora una volta sul divano, ancora una volta senza punti per l’Ascoli. Il 2005 sta finendo, in centro ci sono già le bancarelle natalizie e con gli amici inizio a programmare Capodanno. Abbiamo quindici e sedici anni e le nostre preoccupazioni principali sono cercare di fare un buon rock, ambire ad amplessi modesti e procurarci le canne per festeggiare il nuovo anno sufficientemente tumefatti per non pensare a quelle delusioni amorose che solo l’adolescenza riesce a generare, come se le andasse a capare direttamente all’inferno. È il 18 dicembre, una fredda domenica pomeriggio. Di quelle con il sole che scalda poco e ad Ascoli fanno scendere la temperatura sotto lo zero non appena il giorno sfuma.

L’Ascoli gioca in trasferta a Cagliari, con nove infortunati e uno squalificato e va sotto di due reti nel giro di una quarantina di minuti. La Rivoluzione però si compie nel secondo tempo: Guana imposta verso Comotto che sulla fascia destra allarga per Fini, l’ala va sul fondo. Al centro, nei pressi dell’area piccola, ci sono Quagliarella e Colombo, il cross di Fini però è arretrato, verso il dischetto. Foggia, che si trova dal lato opposto si stacca dalla marcatura e va indietro, a inseguire il pallone di Fini e si appresta a calciare di destro come in un meccanismo perfetto e oliato da anni. Ma la Rivoluzione, per definizione, distrugge lo status quo. Biso arriva da dietro - un balzo: si coordina e quasi in posizione orizzontale tira fuori dal meandro più fantasioso della sua intelligenza una semirovesciata di destro, strozza il pallone che si schiaccia contro l’erba a qualche metro di distanza dal portiere. La sfera s’imbizzarrisce, schizza in aria e finisce in rete. Biso si alza ed esulta; forse dovrebbe fare un piccolo slalom tra i difensori, scavalcare il portiere, prendere il pallone e portarlo nel centro di centrocampo, con la grinta di chi vuole almeno un punto. Ma perché? È il suo primo gol in Serie A e non ne farà altri. Ha appena alzato la testa dell’amplesso più estatico della sua esistenza, compiuto con l’eternità in testa, all’indicativo presente, come se dovesse durare per sempre, come i grandi primitivi e i rivoluzionari all’alba della rivoluzione. Perché non dovrebbe esultare? Chi l’ha detto che questo magma di sensazioni debba essere strozzato dalla necessità di raggiungere il profitto? Chi l’ha detto che vada sacrificato in nome dello stereotipo del successo borghese chiamato “pareggio” o “vittoria”? 

Il risultato rimane invariato: l’Ascoli perde due a uno. Biso a gennaio farà le valige, retrocesso a Catania, in Serie B. Poi Spezia, Frosinone, Fidene, Monza, Civitanovese, Ancona. Io nel frattempo uscirò dalla mia adolescenza. Forse.