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lunedì 14 settembre 2015

Io, Alice e Lorik Cana





La spinta che mi ha appena tirato questo bestione con la t così aspirata da sembrare una caricatura delle caricature fatte sui toscani, neanche l'ho sentita. “Leàthi”, mi dice prima di lanciarmi a tre metri da dove sono, in un punto in cui cadrei, se non fosse che qua sotto siamo in diecimila. Mi ritrovo abbracciato a una settantenne infervorata, che mi respinge via ancora prima che abbia il tempo di chiedermi che cazzo ci fa una settantenne infervorata sotto questa Curva maledetta la sera del 2 marzo, ché qua ci saranno sì e no cinque gradi.
Prima di entrare mi hanno detto che avremmo fatto un gesto di solidarietà per Borja Valero, un madrileno diventato per caso più fiorentino di certi nati in San Frediano, l'uomo più vicino a un simbolo per una città condannata a farsi tradire non appena ne elegge uno. Il lunedì precedente, a Parma, questo centrocampista con la faccia simpatica ha sfiorato la casacca del Signor Gervasoni della sezione di Mantova quel poco che è bastato per beccarsi quattro giornate di squalifica. Quel poco che è bastato per far saltare il fragile coperchio che copre il ribollire di un popolo convinto di essere vittima ma che, molto più semplicemente, non vince mai.

E quindi siamo venuti fin qua, più disperati che incazzati, per starcene stipati sotto la Curva i primi dieci minuti della partita che potrebbe tenerci ancora in corsa per il terzo posto: il Napoli ha appena finito di pareggiare a Livorno, e se vinciamo ci ritroviamo a -4 con lo scontro diretto ancora da giocare. Là fuori si gioca Fiorentina-Lazio, ma la tifoseria è convinta di stare giocando qua sotto, tra le colonne del Franchi, una partita più importante: noi contro il Palazzo, noi contro l'Ingiustizia, noi contro il destino infame e bianconero che ci ha sempre portato via tutto quello che pensavamo di meritarci. E io me ne sto lì, a prendermi le spinte.
La testa mi pulsa come fosse un tamburo di quelli che in Curva non si vedono più. Sono il tìaccacì e quelle birre stappate sempre con meno rabbia e con sempre più rassegnazione che si sono succedute da stamattina. Io me ne sto lì, e non sento neanche lo speaker che prova a svegliare uno stadio grottescamente mutilato delle sue braccia, del suo cuore, dei suoi polmoni. Non sento le formazioni, non sento l'inno, non sento neanche i catartici canti di dolore che si susseguono senza sosta. Sento solo il tamburo nella mia testa.
Perché a me non me ne frega un cazzo di Fiorentina-Lazio, di Borja Valero, del Palazzo, del fatto che non vinciamo mai, di questo pratese con la t aspirata che si atteggia a fiorentino per lavare i propri peccati dinastici.
A me frega soltanto di Alice.
E Alice stamattina è stata chiara, imprevedibile e fredda come sanno essere soltanto certi passaggi nel nulla fatti dai calciatori che amiamo chiamare geni. Ha preso il telefono, ha fatto il mio numero e dopo che le ho pasticciato un pronto ha detto due parole: è finita. Game Over. Triplice fischio su una partita conclusasi a dir bene 0-5, come se non l'avessi già provato cosa significa perdere 0-5.
Il tamburo scandisce il passaggio da una diapositiva all'altra di questo anno e mezzo. Scorrono i suoi sorrisi violenti, le sue malinconie silenziose, il ricordo del mio stupore. Ogni tanto, a forza di scorrere queste immagini, a forza di riavvolgere il nastro di questo anno e mezzo, si insinuano altri pezzetti di felicità, che sommati a quelli di Alice mi proiettano in un panopticon di nostalgia e paure.
Vedo un madrileno con la faccia simpatica, lo stesso che adesso mi costringe qui sotto, superare Mexes e siglare uno 0-2 a Milano che ci dette l'impressione che i tempi della tristezza erano finiti. Vedo lo stesso Mexes segnare a Siena il gol che ci fece capire che invece i tempi della tristezza non finiscono mai. Vedo Cuadrado che prende la palla in area e parte, in un momento eterno, verso il 4-2 che mise per sempre le cose in chiaro: i tempi della tristezza non finiscono mai, ma ogni tanto, per caso, succedono cose di una bellezza maestosa e tremenda.

Le maglie viola e i vestitini di Alice si mescolano, in un crescendo di divagazione temporale. Quando provo ad afferrare un'immagine, e a fermare il tamburo, sforzandomi di ricordare il giorno, il periodo dell'anno, ma mi restano soltanto notti dopo trasferte a Bologna rovinate da un gol di Christodoulopolos, mattine prima di un folle 4-3 casalingo contro l'Hellas, feste di compleanno passate a guardare di nascosto se davvero il giorno seguente sarebbe arrivato a Firenze Berbatov. Il mio tempo con Alice si sovrappone al mio tempo con questa Fiorentina, e mi resta solo un ricordo unico, di una cosa bella, bellissima, e allo stesso tempo capace di fare un male profondo.
Per un attimo si ferma il tamburo nella mia testa. Lo ferma il silenzio improvviso che mi si crea intorno, controcanto del boato scoppiato nel settore ospiti dall'altra parte dello Stadio. Pare che abbia segnato la Lazio. È il quinto minuto. Siamo soltanto a metà della nostra dichiarazione di guerra contro il mondo, e già abbiamo preso gol. Nessuno sa chi ha segnato, nessuno sa come ha segnato, perché ovviamente nessuno riesce a vedere, stretti come siamo tra i corpi e le colonne nella pancia della Curva, Giona moderni, ma c'è comunque qualcuno che urla “l'hanno annullato!”: un gesto assurdo, disperato, d'amore.
Il tempo di crederci e arriva la sentenza dello speaker:
«perlalaziohasegnatoilnumeroventisettecana».
Subito dopo arriva anche la solita fitta che provo quando subiamo gol, ma passa all'istante, sovrastata dal tamburo. Altri cinque minuti di inferno e saliamo sugli spalti, e mentre il tamburo continua a battere, intorno a me è forte la convinzione che adesso, con il tifo presente, la squadra riuscirà a ribaltare una partita nata male anche per colpa di un gesto un po' infantile come lo sciopero di una Curva. Non succede. In realtà non succederà assolutamente niente per gli ottanta minuti più recupero, che io trascorro con gli occhi fissi sul campo e la testa ora in camera di Alice, ora su una collina poco fuori il centro di Cracovia, ora in riva al fiume. La partita finisce 0-1, e insieme a questa e alla storia tra me e Alice, finisce anche la Fiorentina di Montella, che inizia quella sera il suo lentissimo e angosciante declino.



Cracovia è un posto molto bello per ambientarci i vostri ricordi più malinconici


Quando torno a casa, guardando gli highlights, scopro che Lorik Cana da Gjakovë, difensore centrale patriota e operaio, ha deciso di segnare il suo quarto gol nelle sue tre stagioni di Serie A in rovesciata. Più precisamente, replicando un'altra rovesciata fatta da un difensore a Firenze contro la Fiorentina, la Rovesciata Perfetta, la prima immagine religiosa delle nostre vite: la rovesciata di Carlo Parola.
Si interrompe il tamburo.
Di colpo mi chiedo di come sia possibile che Lorik Cana abbia deciso di fare un gol in rovesciata, mentre eravamo a spintonarci sotto la Curva per solidarietà nei confronti di un madrileno con la faccia simpatica, la stessa sera del giorno in cui Alice ha deciso di lasciarmi.
Mi interrogo su quale deve essere il posto del calcio nella vita di un uomo: se deve essere uno svago, se ne deve essere la ragione ultima, se semplicemente è un contenitore di avvenimenti in attesa di farsi dare un significato da persone bisognose di dare dei significati o, forse, se deve essere ciò che scandisce il tempo che scorre in sottofondo e che ci aiuta a ricordare quando sono successe le cose davvero importanti.
Mi sforzo, ma non capisco.
Quella rovesciata di Lorik Cana resta per me una cosa insondabile, mistica e violenta. Come i sorrisi di Alice.

mercoledì 5 novembre 2014

Certi giocatori hanno lo spirito vasto. Bartelt, Batistuta, Barcellona e la storia della mia corrispondenza con Arturo




Quello che sto per raccontare è successo ormai da quasi due mesi e non sono ancora riuscito a dargli una spiegazione.

*          *          *


Mi trovavo a Barcellona, “la città del buon senso, la città del senso comune”, il giorno 5 di settembre. Mi ero svegliato tardi, quasi alle undici, con un cerchio alla testa che provai a sfumare con un oki e una doccia. Faceva caldo, caldissimo, un’afa che mi impediva di ragionare. Piano piano mi ricordai dell’unica commissione che avrei dovuto fare quel giorno, vale a dire portare il vestito blu alla tintoria all’angolo affinché me lo stirassero in giornata. La sera, infatti, dovevo andare al matrimonio di un mediocre tennista, Jordi Samper, famoso più che altro per essere il fratello maggiore di una giovane promessa del Barcellona, tale Sergi Samper, di cui il proprietario del Bar Barela, mio bar sport di riferimento, parla un gran bene. Jordi si sposava con una mia cara amica, bruttina ma molto ricca, Cassandra Puig i Mateu, primogenita di Bernat Puig i Molins, il magnate del cemento catalano, uno degli artefici - o forse dovrei dire carnefici - dell’indiscriminato sviluppo turistico della Costa Brava negli anni Settanta e Ottanta. Il matrimonio era alle sette in un’anonima parrocchia di Pedralbes, il quartiere borghese in cui Jordi e Cassandra vivono, mentre il ricevimento era previsto in una masia di proprietà della famiglia Puig i Mateu che si trova sulla strada per Sant Cugat del Vallès.

Lasciai dunque il vestito in tintoria e pensai che, visto il tipo di giornata, non ne sarei arrivato vivo in fondo se non mi fossi rinfrescato in piscina. Presi quindi un costume e un libro e, scartata l’ipotesi di andare in spiaggia a Sitges,  camminai un quarto d’ora fino a un hotel di discreto lusso dell’Exaimple che ospita, all’ultimo piano, una piacevolissima piscina. Il primo bagno nell’acqua fresca mi diede vigore e soprattutto appetito, così ordinai al ristorante l’unica cosa che non mi facesse venire la nausea dopo tutto quello che avevo bevuto la sera prima, e cioè una bistecca alla piastra con l’insalata. Mangiai con gusto e tornai al mio lettino. 

Ero lì, dunque, a bordo piscina, facendo la digestione dell’insalata e della bistecca alla piastra, sdraiato sul lettino azzurrino con il logo dell’hotel, circondato da ombrelloni di plastica e corpi che profumavano di Nivea e cocco, mezzo addormentato, in attesa che si alzasse la brezza del pomeriggio, con la bottiglia d’acqua che si riscaldava al mio lato, ogni tanto mi giungevano le grida dei bambini grassi seguite dagli splash e dalle lamentele delle straniere in bikini, allegramente stanche dopo due giorni in cui si erano iniettate piccole ma costanti dosi di alcool nelle discoteche sulla spiaggia, lontano dal mondo reale fatto di notizie e persone, convalescente dopo il mio fine settimana di bagordi, pensando distrattamente al matrimonio della sera, quando sentii una mano che si poggiava sulla mia spalla e pronunciava il mio nome. Mi voltai di scatto, in maniera brusca, come se avessi aspirato il fondo di una granita. Dietro di me c’era un volto familiare. Erano almeno cinque anni che non lo vedevo, ma l'ho riconosciuto, dalla sua elegante pelata, dai suoi occhi penetranti. Arturo.

La verità è che su Arturo non ho molto da dire. Più grande di me di almeno una decina d’anni, prima dei fatti di settembre avevo giusto trascorso con lui alcune estati in Sicilia. Quando l’ho conosciuto non lavorava più come giornalista, professione che, per quello che ho avuto modo di capire (ma lui non me ne ha mai parlato apertamente), decise di lasciare dopo la famosaintervista che gli concesse Luis Cesar Menotti quando fu esonerato dallaSampdoria. Quando l’ho conosciuto, dicevo, nel 2007, lavorava come guardiano presso il campeggio di Favignana, dove io trascorrevo almeno quindici giorni ogni agosto. Nel corso di tre estati consecutive ci eravamo quindi frequentati, e apprezzati, sulla piccola isola a forma di farfalla, dove Arturo cambiava spesso ruolo (l’anno successivo faceva il cameriere, quello dopo gestiva l’edicola, l’ultimo anno affittava le biciclette e i motorini). A partire dal 2010 smisi di frequentare l’isola e, pertanto, anche Arturo, a cui però mi legavano ricordi molto cari.

Per la verità, nel corso degli ultimi cinque anni ho ricevuto una serie di cartoline, e anche un paio di lettere, di Arturo. Il fatto è che non ho mai capito se scherzasse o se fosse serio. In queste missive - che mi arrivavano soprattutto dall’Argentina (ne ricordo una, molto poetica, con un’immagine in bianco e nero di Buenos Aires, in cui mi scriveva: “Caro Federico, oggi è domenica, ma le domeniche a Belgrano, se non c’è la partita, non sono domeniche, sono palloni sgonfi che aspettano il fiato dei tifosi per prendere forma”)  - mi parlava di una ricerca che stava facendo sulle tracce di un vecchio allenatore argentino, ormai cieco, di cui era dubbia non solo la dimora ma anche la stessa esistenza, e di cui ora non ricordo il nome, di cui Menotti gli aveva parlato come del suo maestro. Nel corso di queste sue ricerche, Arturo mi aveva raccontato, per la verità in maniera del tutto ermetica, gli incontri che faceva con ex giocatori, allenatori, dirigenti, tifosi, i quali il più delle volte finivano per depistarlo. Quel giorno di settembre, era più di un anno che non ricevevo sue notizie e immaginavo che o fosse morto o fosse tornato in Sicilia, e in ogni caso che avesse interrotto la sua ricerca. Ed invece me lo trovai lì, a bordo piscina, in un hotel dell’Eixample, più vivo che mai.

La cosa più incredibile, però, non fu quella. Mentre bevevamo due birre al tavolino del bar della piscina, riparati da un ombrellone, Arturo, dopo avermi fatto parlare per venti minuti filati della mia vita, alla mia domanda su cosa ci facesse quel giorno a Barcellona, mi rispose che era venuto per il matrimonio di un suo vecchio amico, il tennista Jordi Samper. Lì per lì la cosa non mi sconvolse più di tanto. Arturo, infatti, da ragazzo era stato un ottimo tennista, quasi una promessa, se così si può dire. Tanto che, a Favignana, giocavamo quasi ogni pomeriggio al campo dell’ex villaggio Gassman, dove lui conosceva tutti, avendoci lavorato per alcune estati. Si limitò a dirmi che era molto amico dell’allenatore di Samper, un catalano di cui non ho afferrato il nome, e tanto mi bastò. Mi rallegrai della fortunata casualità, sperando che fosse così fortunata da farci finire anche nello stesso tavolo durante il ricevimento. Quanto al motivo della sua presenza in piscina, in quella piscina, mi disse che alloggiava proprio in quell’albergo, dal momento che era l’albergo che gli sposi avevano messo a disposizione degli invitati. Anche questa spiegazione, perfettamente plausibile, fu sufficiente a non farmi dubitare delle sue parole. Dopo aver parlato un altro po’ del più e del meno, con la stessa velocità con cui era apparso, Arturo scomparve. Quando provai a chiedergli della sua ricerca, dei suoi viaggi in Argentina, cambiò leggermente espressione, si incupì, e mi disse che mi avrebbe raccontato tutto durante la festa, nell’aria fresca di Sant Cugat, allietati dai gin tonic e dalle ragazze che ballavano, e che ora doveva proprio scappare perchè aveva ancora una serie di commissioni da sbrigare nel Barrio Gotico, compresa la ricerca di un papillon per la cerimonia. Per un attimo pensai di offrirmi di accompagnarlo, ma faceva così caldo, il Barrio Gotico mi è così indigesto, avevo ancora l’eco del mal di testa, e non volevo arrivare distrutto al matrimonio, che restammo che ci saremmo visti direttamente in chiesa all’ora convenuta. Ci abbracciammo in maniera affettuosa e ci salutammo.

La sera, la sposa arrivò con venti minuti di ritardo. La cerimonia durò poco più di un’ora. Uscimmo alle otto e mezza sul selciato della chiesa con il sole ancora forte, vigoroso, spagnolo. Di Arturo neanche l’ombra. Pensai che non aveva fatto in tempo a venire alla cerimonia e che ci saremmo incontrati direttamente alla festa. Andai in macchina con alcuni cugini simpatici di Cassandra. Quando arrivammo alla villa, una masia antica ma non particolarmente pittoresca, ci attendeva un esercito di camerieri con vassoi pieni di tapas. L’aperitivo fu lungo e piacevole; l’afa, giunti nel Vallese, si era smorzata, e il tramonto colorava di sfumature violacee i volti degli invitati. Venni presentato al vecchio allenatore di Samper, che era stato amico di Arturo, e parlammo degli anni Novanta, anni d’oro del tennis spagnolo che avevo vissuto in prima persona, ma non gli chiesi se conosceva il mio amico. Venni presentato, anche se di sfuggita, al fratello calciatore dello sposo, e mi premurai solo di consigliargli di non seguire troppo il suo nuovo allenatore, quel Luis Enrique che avevo conosciuto a Roma, perché tanto non sarebbe durato molto. Venni presentato, infine, a un’amica molto avvenenente di Cassandra, Valeria, una ragazza argentina, di origine italiana (di cognome faceva Bertuccelli), con cui Casandra aveva recitato in alcune coproduzioni minori (erano entrambe attrici) e che era venuta apposta da Buenos Aires per il matrimonio, la quale, in maniera forse inconsapevole, mi fece dimenticare, un bacio alla volta, l'assenza di Arturo.

La mattina successiva, ormai il 6 di settembre, mi svegliai nella stanza di un hotel che, a quel punto, mi era diventato familiare. Dopo aver fatto la doccia, provai a fare nuovamente l’amore con Valeria, ma avevamo entrambi troppo mal di testa. Indossai allora faticosamente il vestito sgualcito del matrimonio e la salutai, promettendole che sarei tornato nel pomeriggio, per fare un ultimo bagno nella piscina all’ultimo piano e magari poi andare al cinema a vedere un film con Elena Anaya che era appena uscito e in cui lei era la co-protagonista. Valeria aveva delle sopracciglia bellissime e mi dissi che sarei dovuto assolutamente ritornare a baciarle. Prima di uscire dall’hotel mi fermai alla reception per sapere se il signor Arturo *** fosse già ripartito. Fui quasi sollevato quando il ragazzo francese dietro la reception - che immaginai fosse lì in stage - mi disse che non risultava alcun ospite registrato con quel nome nell’ultima settimana.

Anche se non ce n’era bisogno, sulla strada di casa decisi di telefonare a Cassandra. Dopo un rapido preambolo di ringraziamenti, auguri di buon viaggio (con il marito erano in partenza per il Perù) e ammiccamenti su Valeria, le chiesi se avesse mai conosciuto un amico del marito, o comunque se avesse mai sentito nominare il nome di Arturo ***. Mi disse che non sapeva chi fosse. Ci salutammo dandoci appuntamento al suo ritorno. Arrivato a casa, per la verità esausto, mi accorsi subito, già quando aprii la porta, che c’era qualcosa di strano, com’erano sempre state strane, d’altronde, le lettere di Arturo, in cui quello che voleva dirmi non era mai nelle righe, ma tra le righe. La porta di casa, infatti, era come bloccata. Dovetti fare forza per aprirla. Entrando a casa capii il motivo: sotto la porta qualcuno aveva lasciato una busta, che quindi aveva fatto attrito. La presi in mano e riconobbi subito la scrittura di Arturo. Sulla busta c’era questa frase, tra virgolette: “Lo spettacolo calcistico è l’unico rito che ancora vale la pena di far sopravvivere, perché a volte l’esistenza filtrata attraverso la finzione, chiarisce qualcosa”. Non sapevo se era una frase sua o di qualcun altro (magari del famoso allenatore cieco). Aprii la busta con un misto di ardore e timore. Per prendere tempo con me stesso, misi l’acqua sul fuoco per farmi un tè. Quando fu pronto,  mi sdraiai sul divano a leggere la lettera.   




*          *          *


Caro Federico,

come avrai già verificato tu stesso, non ce l’ho fatta a venire al matrimonio. Purtroppo sono dovuto ripartire immediatamente. Sappi però che mi ha fatto un enorme piacere incontrarti. Io e te siamo fatti della stessa materia, una materia calda, siamo come due scolature di catrame che invadono le strade che percorrono.

Mi hai chiesto della mia “ricerca”, e io sono stato forse elusivo. Mi accorgo ora che la nostra amicizia richiede che io mi apra un po’ di più. Ed allora voglio dirti questo, anzi mi sento di dirti questo. Prendilo come un anticipo sui nostri incontri futuri.

Il ventisette settembre, nello stadio S. Siro, Batistuta segnò per tre volte al Milan, di cui una con un curioso calcio di punizione tirato all’interno dell’area di rigore, con i giocatori rossoneri in barriera sulla linea di porta. Esultò come se imbracciasse una mitraglietta e il giorno successivo un quotidiano progressista pubblicò l’accorato articolo di un intellettuale che dipinse Batistuta come un porco e un guerrafondaio. Seguirono: su una rivista giuridica internazionale, la lettera aperta di un noto tennista che rivendicava il diritto di spaccare la racchetta per terra; l’intervista, su un rotocalco cattolico, a un prete di Avellaneda che millantava di aver impartito i sacramenti al piccolo Gabriel; la raccolta di firme, a cui Batistuta non diede alcun peso, di un nucleo pacifista del Valdarno perché abiurasse quell’esultanza.

Il diciotto ottobre, Batistuta segnò un gol alla Roma. Era un pomeriggio tiepido e nel primo tempo della partita Batistuta, cui arrivavano pochi palloni, ebbe modo di riflettere sulla conversazione tenuta la sera prima con Gustavo Bartelt, suo connazionale che giocava nella Roma e che gli aveva chiesto di incontrarlo tramite il comune amico Nestor Sensini. I due si erano visti in un bar dei Parioli, Batistuta indossava un cappello da giamaicano per non farsi riconoscere, Bartelt non lo riconosceva nessuno, perché non era molto famoso e assomigliava, se mai, all’altro calciatore argentino Claudio Caniggia, talentuosa ala destra e latin-lover che qualche anno prima, a Roma, era stato squalificato per cocaina: lo avrebbero al limite scambiato per qualcun altro e dopo una pacca sulla spalla o uno sputo sarebbe finita lì.

L’ospite romano di Batistuta aveva l’aria furba (in questo Bartelt ricordava molto Caniggia) di chi si fosse trovato, senza nemmeno accorgersene, a vivere a scrocco un più fortunato destino (in questo Bartelt, almeno per qualcuno, era Caniggia). Tra le altre cose (il conto gratis dal meccanico, un appartamento con un numero elevatissimo di specchi, fornicare con un numero elevatissimo di donne le cui posture si moltiplicavano nel numero elevatissimo di specchi), questa reincarnazione aveva dato a Bartelt la possibilità di incontrare i suoi idoli, come lo sbigottito Batistuta che seduto al tavolino del bar si sentiva lontano anni luce dal conseguimento di quei vertici sessuali. Bartelt gli confidò di essere un calciatore non più che mediocre, ma per ordine dell’allenatore della Roma, un boemo di cinquant’anni, complice una stagione fortunata nel Lanus (tredici gol in diciotto partite), era stato acquistato per ricoprire il ruolo di ala destra, guarda caso lo stesso di Claudio Caniggia. Per come glielo descrisse Bartelt, il boemo, che si chiamava Zdenek Zeman, non parlava quasi mai, fumava sempre e proponeva un gioco d’attacco quasi suicida. Soltanto un giorno, nel ritiro pre-campionato, si era avvicinato a Bartelt pronunciando le seguenti parole: “Sappiamo tutti e due che sei pressappoco una pippa. A me non importa, mi serve solo che tu corra verso l’area avversaria più velocemente che puoi. Possono succedere due cose: o t’insegno a essere la più grande ala destra del mondo oppure non ci riesco, ma le persone penseranno che sei comunque fortissimo, perché in te gioca ancora lo spirito di Claudio Caniggia”.

“Mister, mica è morto Caniggia”.

“Lo so, ma certi giocatori hanno lo spirito vasto”.

Al trentaduesimo del primo tempo, Batistuta agganciò un pallone che sembrava spiovere dall’altra parte del tempo o della terra. Era immerso in un torpore che non sapeva se imputare alla tattica troppo difensivista del suo allenatore o al fatto che i difensori della Roma erano sistemati in modo che la loro linea di difesa coincidesse con quella di metà campo, confinando, in virtù della regola del fuori gioco, la metà in cui la Fiorentina avrebbe dovuto attaccare al di là del lecito calcistico. La nuova disciplina cui si era sottoposto cominciava a funzionare, perché in un solo istante si riscosse dall’abulia e di esterno al volo scavalcò il portiere in uscita.

In genere, i difensori delle squadre avversarie lo tempestavano di botte, qualcuno gli diceva che si sarebbe scopato sua moglie, un paio di volte si era ritrovato con un dito in un occhio. La difesa della Roma al contrario era, la parola giusta gliela offrì proprio il ricordo della sera prima, spirituale, di una sostanza strana fatta di aria e mistero. Tutti si disinteressavano di lui, forse un altro pallone giocabile sarebbe arrivato, avrebbero vinto due oppure tre a zero (la Roma non sembrava intenzionata a segnare, ci furono risse, l’arbitro cacciò alcuni giocatori per comportamento scorretto, ma tutto si svolgeva al di là di una bruma nebbiosa e a Batistuta veniva di chiudere gli occhi), che importa, pensava, l’importante è vincere e che vincano i buoni.

Verso la fine della partita, l’allenatore boemo mandò in campo Bartelt. Non gli disse nulla, solo gli strizzò l’occhio sorridendo. Bartelt pensò: “Che cazzo ridi, stiamo perdendo, siamo rimasti in nove e non ho la più pallida idea di come giocare”. Batistuta pensò: “Sono ridotti alla frutta, io potrei sdraiarmi sul prato per sognare di quando ero bambino, e questo schiera il sosia di Claudio Caniggia, che ieri sera si è pure fatto quattro gin tonic”.

L’ingresso di Bartelt, senza una ragione visibile, ha l’effetto di una scarica elettrica. La Roma, che fino a quel momento aveva giocato in modo a dir poco confusionario, è percossa da uno slancio convulso e teatrale. Lo stadio Olimpico lo avverte e intona una litania crescente di cori. Al novantesimo Bartelt scarta con una mossa fulminea il terzino sinistro della Fiorentina, un tedesco dalle orecchie a sventola, non senza averlo prima irretito con una sequenza di pasodoble che gli aveva insegnato una puttana di Mataderos. A Batistuta, che adesso vede tutto con chiarezza da sfiorare la premonizione, la chioma giallastra di Bartelt pare una lama efferata e incosciente: chiunque al suo posto tirerebbe verso la porta o passerebbe a un compagno, Bartelt no, continua ad avanzare verso la fine dell’area di rigore, rallenta per non oltrepassare la linea, si avvicina all’area piccola del portiere, e da qui offre una traiettoria radente a un compagno di squadra con cui prima di allora non aveva mai avuto a che fare (nessuno per la verità ci aveva mai avuto a che fare, Dmitrij Anatol'evič Aleničev era un idraulico russo che sbarcava il lunario nello Spartak di Mosca, ma sul cui acquisto Zeman aveva molto insistito, sfinendo gli scetticismi della dirigenza) e che non chiede di meglio di pareggiare la partita.

Allo scadere dei minuti di recupero, Bartelt corre in verticale nell’area della Fiorentina, riceve un pallone che arriva dalla destra e prova a girarlo verso la porta. Ne scaturisce un tiro pietoso, neutralizzato da un difensore diverso dal tedesco di prima. Il pallone torna di nuovo sui piedi di Bartelt, che ha la visuale sgombra e può sprecare la sua seconda occasione. Il tiro sbatte sul portiere ma - questo Batistuta già lo sapeva, era ineluttabile - Francesco Totti, il giovane e promettente regista della Roma, si avventa sulla sfera di cuoio e non fallisce il gol del due a uno.

Bartelt, forse con innocenza o forse con perversione, propose a Batistuta di scambiarsi le maglie come ricordo di quella partita. Batistuta non sapeva più cosa pensare, tutto gli pareva assurdo, ridicolo e miracoloso. Scendendo negli spogliatoi incrociò l’allenatore boemo, che lo guardò con una maschera di silenzio dietro cui c’erano il vuoto della saggezza e il vuoto della follia.

Spero di rivederti presto.

Con affetto, il tuo amico Arturo




*          *          *


Verso le sei tornai in albergo a cercare Valeria. In camera non c’era. In piscina neanche. Alla reception, un altro ragazzo, questa volta catalano, mi disse che la signora Bertuccelli aveva fatto il check-out verso le dodici. Telefonai a Cassandra, ma il telefono era staccato. Pensai di mandarle un messaggio, ma non mi sembrava il caso di disturbarla durante il suo viaggio di nozze. Da Valeria, ovviamente, non mi ero fatto lasciare il suo numero. Quando stavo per allontanarmi dalla reception, il ragazzo mi chiese se per caso mi chiamassi Federico ***. Risposi di sì, che ero io. Ah, fece lui. Ah cosa?, lo incalzai. La signora Bertuccelli ha lasciato questa per lei. Una lettera. Il ragazzo mi allungò la busta azzurrina con il logo dell’hotel. Senza neanche pensarci, gli dissi che non la volevo. Mi guardò perplesso. Non la voglio, gli dissi un’altra volta, scandendo le parole. No-la-quiero! Va bene, disse lui. Mi chiese se allora dovesse buttarla. Sì, certo, tagliala in quattro pezzi e buttala nel cestino, gli risposi. Però fammi un favore, aggiunsi: prima di buttarla, leggila. Uscii dall’albergo e mi incamminai verso il cinema, sperando di fare in tempo per lo spettacolo delle otto.

giovedì 11 settembre 2014

Yo no soy Juan, yo soy el Loco


Firenze, Parco delle Cascine
Primavera 2012


Un gruppo di ragazzi sudamericani tra i venti e i trent’anni, si passano la palla sul pratone. Fa caldo, e tra un passaggio e l’altro le birre ghiacciate vanno via più veloci del solito. Una Moretti, due Moretti, tre Moretti, tante Moretti da lastricarci col vetro delle bottiglie tutti i chilometri che ci sono tra Firenze e Lima. A un certo punto la palla arriva sobbalzando lentamente a uno dei meno atletici della compagnia. È bolso e gonfio di birra, ma nonostante questo riesce a caracollare incontro al cuoio. Come se fosse la cosa più naturale del mondo si coordina, si piega, tira fortissimo. Mentre il pallone vola nell’aria verso l’Arno, che porta al mare, all’Oceano, a Lima, vola nell’aria anche un rumore secco, un crac, che sale su da quel cuscinetto di fibre che i dottori il giorno seguente chiameranno legamento collaterale mediale. Quegli stessi dottori diranno anche: «stagione finita». Perché sì, nonostante i chili di troppo, le birre, il pratone, a squarciare con un tiro troppo forte l’aria ansiogena e appiccicosa della primavera fiorentina è stato un calciatore professionista.
La squadra è contestata, le ultime due partite casalinghe le ha perse per 5-0 con la Juventus e per 2-1 col Chievo, lo spogliatoio è in frantumi, il capitano ha già firmato per passare i prossimi anni a Milano, l’allenatore sembra non riuscire a tenere in pugno le diverse anime dello spogliatoio, specialmente quella dei ragazzini balcanici. Per questo si decide di raccontare di un infortunio in allenamento, che ci manca soltanto che in giro si sappia che mentre siamo a cinque punti dalla retrocessione questo passa il lunedì pomeriggio a lanciare verso l’Oceano palloni, legamenti e vetri ambrati ancora sporchi di schiuma.
Ma comunque la situazione disciplinare resta grave, tanto grave che nelle ore seguenti abbandonando chissà quale consiglio d’amministrazione, che tanto l’importante è che ci sia il fratello maggiore, arriva anche il Presidente, anche se Presidente non lo è più. Lo convoca, lo guarda negli occhi, prova a spiegargli che Juan, qui ti abbiamo sempre coccolato, pagato, difeso, ma queste cose non le puoi più fare, che già rischiamo di andare in trasferta a Gubbio il prossimo anno, e ne sono passati solo due, di anni, da quando vincevamo ad Anfield. Juan, così si chiama il ragazzo sudamericano che tira fortissimo, alza gli occhi verso l’interlocutore e capisce che la sua storia in quella città così lontana, così diversa da Lima, è finita.
Si alza, e mentre gira le spalle al Presidente, pensando di non dover mai più entrare in quell’ufficio, pronuncia, scandendo bene ogni lettera, otto parole che sembrano proiettili.
«Yo no soy Juan, yo soy el Loco»


***

Firenze, Stadio Artemio Franchi
Autunno 2013


Tra la porta sbattuta nell’ufficio del Presidente e questa serata settembrina ne sono successe di cose. L’allenatore che non riusciva a tenere in pugno i ragazzini balcanici alla fine ha trovato una soluzione ma poi per questa è stato costretto ad andarsene. La squadra ha evitato le trasferte a Gubbio, ma solo perché in uno strano sabato pomeriggio a Lecce Cerci ha segnato il gol che gli ha fatto perdonare quelle passeggiate col gatto al guinzaglio che proprio ai fiorentini non andavano giù, per poi infine andare via anche lui, dopo aver rubato il giorno del suo compleanno delle pernici imbalsamate in un ristorante di Moena, insieme ad una compagnia composta anche, come se ci fosse bisogno di dirlo, dal sudamericano che tira fortissimo. E anche lui se ne è andato, a Genova, che non sarà Lima ma almeno c’è il mare, dopo aver cercato per tutta l’estate un trasferimento in una grande squadra che non è mai arrivato, perché già è difficile entrare nell’élite del calcio europeo se sei dieci chili in sovrappeso, figuriamoci se questi li accompagni ad incidenti con Suv guidati da cugini ubriachi, paparazzate con boccali di birra a notte fonda e tante, troppe, malinconie. Arrivato a Genova dichiarazioni raggianti, il passato alle spalle, i cattivi pensieri, causati dalla troppo lunga permanenza a Firenze, che non ci sono più. Ma nei fatti niente cambia: restano i chili, resta il numero zero, per la seconda stagione consecutiva, alla voce di gol segnati in campionato, restano gli infortuni che gli fanno saltare in totale oltre tre mesi e mezzo di calcio giocato.



Finisce la stagione, il riscatto ovviamente non arriva, e così viene rispedito all’indietro per il tratto autostradale che collega Genova e Firenze, e Lima, la pace, casa, diventano così lontani che non basterebbero più nemmeno tutti quei vetri ambrati ancora sporchi di schiuma. Quando arriva in ritiro è praticamente un imbucato alla festa di matrimonio di due sconosciuti. A Firenze è cambiato tutto, e mentre gli infortuni e i piatti di buridda riempivano il 2011-2012 di Juan, la squadra è tornata ad ottenere risultati importanti e nell’aria si respira davvero l’armonia cristallizzata di una festa di matrimonio. Considerando una minaccia inserire un Loco in questo mondo viola confetto e in piena pax borjana la dirigenza fa di tutto, ma proprio di tutto, per liberarsene. Ma nei giorni necessari per trovare qualcuno che finalmente accetta (e questo qualcuno è il Livorno appena tornato in Serie A così bisognoso di giocatori d’esperienza gratis che forse sarebbe pronto ad accogliere a braccia aperte anche Fabrizio Cammarata, e infatti finisce a prendere Leandro Rinaudo), l’incarico di gestire quello che ormai è soltanto un problema, un investimento non poco costoso e ad alto tasso di rischio, accade qualcosa.
Molti, rovinati dai cliché di certa narrativa, innamorati dell’entrata in scena del deus-ex-machina, dell’aiutante, del saggio che redime e illumina la via, diranno che il nuovo allenatore è riuscito a convincerlo a mettere da parte, almeno per un po’, il Loco, o almeno coprirne la confusione con il rumore secco che fanno i palloni quando sono tirati fortissimo. Agli altri resta il vagheggiare di un percorso psicologico e emotivo del tutto individuale, maturato nelle infinite sedute d’allenamento trascorse a passarsi stancamente il pallone con l’altro emarginato, ed altro ladro di pernici, Ruben Olivera (ma questa è un’altra storia). Il fatto è che Juan a Livorno non ci vuole andare. Ok c’è il mare, ok a dieci minuti di macchina dallo stadio c’è un ristorante peruviano che magari fa un ottimo ceviche, ok è ancora Serie A. Non sarebbe un problema Livorno in sé: il problema è andare via. Juan vuole restare, anche se questo significa dover prolungare di un anno il contratto dimezzandosi di fatto lo stipendio, anche se questo significa dover tornare in una forma presentabile, anche se questo significa smettere con le Moretti e il pratone, e il tutto senza aver nessuna garanzia di giocare. Firenze, ovviamente, non capisce. Accusa il giocatore di essere un mercenario, di aver così poca voglia di giocare da essersi accontentato di fare tribuna per altri due anni pur di strappare ancora qualche soldo alla dirigenza. Le ultime due stagioni sono più che sufficienti per sentenziare che quell’esterno sinistro dalle incredibili doti atletiche e balistiche conteso per tutta l’estate 2010 da Real Madrid e Barcellona ormai non esiste più, e che se ne è andato nel mondo onirico in cui ogni giocatore ripete all’infinito la sua migliore stagione (e lì in eterno riceve sulla fascia sinistra i passaggi filtranti del Gaetano D’Agostino 2008-2009) lasciando il posto a un ex-giocatore forse buono per un ultimo campionato in Qatar. A Firenze nessuno sembra ricordarsi che uno dei grandi classici della letteratura di ogni tempo e di ogni qualità è la risalita del protagonista dopo l’aver toccato il fondo, e soprattutto nessuno sembra accorgersi di quanto sia letterario questo personaggio che, trovata occupata la sua maglia numero 6, opta per la numero 66, come i centilitri di quelle Moretti stappate con la foga di chi forse in fondo ci crede che sia possibile lastricare di vetri la strada che riporta a casa. Dopo un mese dall’inizio della stagione gli zero minuti di presenza e l’esclusione dalla rosa designata per le competizioni europee lasciano presupporre che in fondo i tifosi avevano ragione, che ha rinnovato giusto per non sforzarsi e magari creare pure un po’ di confusione nello spogliatoio, ché si sa che quello è Loco.
È un triste posticipo del lunedì sera quando, in una partita messasi malissimo proprio allo scadere del primo tempo, dal tunnel non riesce il ragazzino polacco che c’era entrato un quarto d’ora prima, ma uno sconosciuto. Prima che lo speaker annunci il cambio in Curva sono già state formulate almeno quattordici teorie sull’identità del neo entrato. Nessuno si accorge dei chili persi, nessuno pensa che sia seriamente ancora in rosa. La seconda volta della serata in cui lo speaker è chiamato a pronunciare il suo nome, quando ormai è montata la consapevolezza che davvero si è appena completata una rimonta (che poi sarà puntualmente vanificata dal gol di un ex a tempo scaduto) con un gol di Juan, parte spontaneamente, a coprire tutto, anche la voce dello speaker stesso, il coro dedicatogli negli anni passati, come se non fosse mai cambiato niente, come se fosse passato un giorno, e non ottocentottantatrè, dall’ultima volta che ha segnato in questo stadio.
Un qualsiasi giocatore in una situazione del genere sarebbe corso sotto quella Curva per sanare una volta per tutte una situazione rimasta tesa troppo a lungo, un bacio alla maglia valido come una versione condensata in due secondi dei trecentosessantotto giorni della conferenza di Versailles. Ma Juan non è un giocatore qualsiasi, ed ha qualcos’altro in sospeso da risolvere. Invece di esultare alza gli occhi verso la tribuna, e, mentre corre con lo sguardo fisso verso questa, bisbiglia visibilmente commosso alcune parole. Mi piace pensare che non siano state parole d’amore, che il destinatario non sia stato un familiare, che tanta fatica non sia stata fatta per finire con una battuta presa in prestito a un romanzetto sentimentale. Juan non è un giocatore qualsiasi. Juan non può che aver detto, scandendo bene ogni lettera, dieci parole che sembrano proiettili.
«Vede Presidente, yo soy Juan, pero también soy el Loco»

***

Varsavia, Stadion Narodowy
Estate 2014



Un gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni, di cui molti sudamericani, si passano la palla sul pratone dello Stadio Nazionale. Nonostante non faccia poi così caldo, tra un passaggio e un altro sugli spalti le birre ghiacciate vanno via veloci, come al solito. Una Tyskie, due Tyskie, tre Tyskie, tante Tyskie da lastricarci col vetro delle bottiglie tutti i chilometri che ci sono tra Varsavia e Firenze, e poi tra Firenze e Lima. A un certo punto la palla arriva sobbalzando lentamente a uno dei più atletici della compagnia. È scattante e veloce, e si lancia incontro al cuoio. Come se fosse la cosa più naturale del mondo si coordina, si piega, tira fortissimo. L’impatto con le mani del portiere costaricense fa lo stesso rumore secco di un legamento che si rompe.

lunedì 14 aprile 2014

VIVERE NSEREKO

Savio. Dal latino Sapius, Saggio. Capace di seguire la ragione in ogni circostanza, con equilibrio e prudenza. Nomen Omen, dicevano sempre loro, i latini, quelli saggi. Chissà se a Kampala, capitale dell’Uganda, esiste un professore della nostra lingua originaria, che potesse spiegare al signor Nsereko e alla simpatica signora tedesca che lo aveva maritato che cosa stavano combinando. Chissà se il 27 luglio del 1989 quando i coniugi scelsero il nome Savio per il loro pargolo sapevano quale micidiale cocktail di estro, fantasia e talento andavano a generare: Savio Magala Nsereko. Tre nomi, diciotto lettere, un mito. Più che un saggio, un genio. Di quelli che la storia regala ogni mille anni, forse di più. Se fosse stato idiota sarebbe diventato un noioso Messi qualsiasi.
Trasferitosi da giovanissimo in Germania il geniale talento dell’ugandese esplode nel Monaco 1860, i cugini poveri del Bayern. A 16 anni è già su tutti i taccuini dei migliori osservatori, ma con un colpo incredibile di mercato finisce nel Brescia di Corioni. A 18 anni esordisce in serie B e stupisce tutti. Talento cristallino, dribbling a tutto campo, rapidità, visione di gioco, facilità nell’arrivare al tiro. Fisicamente è ancora tutto da formare e una semplice maglia delle Rondinelle addosso sembra uno di quei felponi da rapper. Tempo di un anno ed è protagonista assoluto degli Europei under-19 in Repubblica Ceca, vinti dalla nazionale teutonica. È nominato miglior giocatore del torneo, superando la concorrenza di stelle di primo livello come Mihail Aleksandrov, Vladimir Koman, Ben Mee, Fran Mérida, Tomáš Necid, Stefano Okaka, Kyriakos Papadopoulos, Silvano Raggio Garibaldi e Richard Sukuta-Pasu. Che dire: una manifestazione indimenticabile!


A gennaio del 2009 il grande salto: viene acquistato a peso d’oro (9 milioni di sterline!) dal West Ham. Veste in appena 10 occasioni la maglia numero 10 degli Hammers e si brucia tra panchina e tribuna.

Il carattere fumantino non paga da quelle parti e dopo sei mesi è rispedito in Italia, alla Fiorentina. La Toscana è il punto di non ritorno del “Saggio”: brutte compagnie, affitti non pagati, lungo periodo di inattività. Viene quindi spedito al Bologna: due presenze e altri problemi caratteriali. A Firenze non ne vogliono più sapere, lo impacchettano e lo mandano al Monaco 1860: riassaporando aria di casa, magari, riesplode e riusciamo a scavarci qualche euro. Con i Löwen ancora tanta panchina e tribuna. Ma nel momento in cui la carriera sembra finita, cancellata, distrutta, arriva il colpo di genio: Savio non si fa più trovare e la società denuncia la sparizione.
Nei giorni precedenti il fantasista aveva fatto trapelare di essere coinvolto in un brutto affare riguardante un suo fratellastro, sembra una sparatoria tra clan rivali. Dopo pochi giorni è ritrovato nella casa della sorella, in ottime condizioni di salute. Girano voci su strani rapporti con la malavita della città. Dopo poco il 1860 ne annuncia il licenziamento e il “Saggio” ritorna a Firenze, che nel tentativo di trovargli una sistemazione tranquilla lo sbatte in Bulgaria, nel Černomorec Burgas, sulle rive del Mar Nero, dove se non altro ritrova un po’ di continuità di prestazioni. Ma il campionato bulgaro e la tranquilla zona balneare non fanno per lui: vuole la luce dei riflettori per tornare protagonista, vuole un campionato di livello. Finisce la stagione e la Fiorentina è alla ricerca di un acquirente. Per qualche giorno si fa il nome della Triestina. Il mio cuore alabardato scalpita: finalmente il Genio nella mia città! Invece finisce alla Juve Stabia, serie B. A Castellammare altro calvario, due risicate presenze. Ma arriva un altro colpo di genio: una nuova sparizione.
Fa perdere le sue tracce per venti giorni. Verrà ritrovato a Londra con 16.000 euro in meno sul conto corrente, dopo due settimane godute tra prostitute ed alcoolici. Inutile dire che la Juve Stabia non accetta il comportamento del “Saggio”, rientrato alla base con la mamma e il procuratore, e lo rispedisce al mittente. Ennesimo trasferimento ed ennesimo calvario: finisce al Vaslui in Romania, 2 presenze. Successivamente passa all’Unterhaching, squadra di terza divisione tedesca, stagione 2012-13. L’anno del grande colpo. L’anno del ritorno in grandissimo stile. Non sul campo di calcio, ovviamente, dove colleziona solo le solite 2 presenze. Nonostante giochi, o quanto meno ci provi, nell’Alta Baviera il “Saggio” da il meglio di sé dall’altra parte del mondo. Il 28 ottobre 2012 è infatti arrestato a Pattaya, Thailandia: aveva inscenato un finto sequestro, il terzo, per estorcere alla sua famiglia 25.000 euro che gli servivano per pagare due prostitute tailandesi. Mai il mondo del calcio ha visto una cosa del genere. Divino. Epico. Leggendario. Quel poppante di Balotelli in confronto è una nullità. George Best un dilettante. Edmundo un cagnolino ammaestrato. Imparate, imperate tutti! Nelle vostre camerette pretendo un poster di Savio Magala Nsereko, il “Saggio”.

Rescisso, neanche a dirlo, il contratto con l’Unterhaching, finisce nella periferie del calcio tedesco, quarta divisione, firmando per il Viktoria Köln. Dopo alcune iniziali buone prestazioni trova il tempo di rubare un orologio ad un compagno di squadra e viene licenziato. Ennesima genialata.
Lo abbandonano tutti. Sembra destinato a chiudere la carriera ad appena 23 anni. Ma c’è ancora chi crede nel “Saggio” e la chiamata arriva addirittura da Israele. Contratto con l’Hapoel Akko. Avventura che dura il tempo di un sospiro, sulla quale non si sa nulla.
Oggi Savio è ripartito dal Kazakistan dove ha trovato un accordo con l’Atyrau Futbol Kluby e dove finalmente ha riassaporato la gioia del gol che gli mancava dal 17 gennaio 2009, quando segnò una doppietta in Brescia-Pisa 4-0.


Con l’Atyrau è subito andato in rete, segnando, con una sensazionale barbogia urticante (citando la Gialappa, quando ancora faceva ridere) il gol vittoria contro il Kairat nella prima giornata del Campionato Kazako. Il “Saggio” ha definito questa esperienza “la mia ultima occasione”. Chissà se a 24 anni ha deciso di farla finita con i colpi di genio e di diventare un po’ più idiota: i suoi primi 24 anni di vita si possono riassumere parafrasando l’ottimo Federico Guglielmo Nietzsche “Meglio essere Savio Nsereko per conto proprio, anziché Savio secondo la volontà altrui”.
PS: ricordatevi di comprare i poster per le vostre camerette!

mercoledì 19 dicembre 2012

Ipotesi di un carteggio



San  Pietroburgo, 1 ottobre 2012


Caro Vincenzo,

concluso l’allenamento, stasera ci siamo rinchiusi nella palestra, con ancora appesi i manifesti in cirillico dell’antica propaganda. L’autunno non ci lascia all’aria aperta a discutere di tattiche, il vento che arriva dalle steppe già supera le resistenze dell’acrilico. Uno dei vantaggi indiscutibili del freddo è avere più tempo a casa per riscaldarmi -ho un plaid di feltro mezzo mangiato dal cane, una poltrona e una vodka distillata dalla figlia del magazziniere-, rispondere con calma alle tue lettere e avere nostalgia.
Veniamo a quello che mi scrivi: hai un’ottima difesa, quella è gente tosta, sa come toccare le caviglie senza farsi accorgere dall’arbitro. Ho studiato alcuni schemi per i calci d’angolo: potresti sfruttare Gonzalo per la percussione conclusiva, dopo aver ingannato i difensori con quel movimento centripeto dei bassi che apre gli spazi esterni per il salto dell’ariete. Tutto il resto affidalo a Pizarro, hai visto come sfianca gli avversari col suo possesso certosino, il suo girare attorno su se stesso. Non hai centrocampisti adatti agli inserimenti, come un tempo io Perrotta, ma l’estro degli attaccanti dovrebbe prevalere, almeno contro le squadre medio-piccole. Nel fine settimana ti mando le schede atletiche per ciascuno, non allentare ancora i carichi, aspetta i primi di novembre.
Ti abbraccio, tuo, Luciano.

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Firenze, 14 novembre 2012

Caro Luciano,

grazie dei suggerimenti della settimana scorsa. A San Siro, in panchina, mi sembrava di averti a fianco. Certo, il Milan è malridotto, ma erano anni che a questa gente non capitava uno straccio di soddisfazione. Soddisfazione effimera peraltro, ci riempiono di complimenti perché sanno che non dureremo, che non c’è pericolo per il finale già scritto del romanzo. A volte mi chiedo cosa ti spinga a dannarti l’anima per Firenze, lontano come sei. Tanto ristretto è l’orizzonte delle loro speranze che si accendono per un abbozzo di bel gioco, o per la prospettiva di un terzo o quarto posto. Ma questa non è speranza, Luciano, è rassegnazione. Tu mi scrivi che Firenze non esiste se non in ciò che la circonda, la campagna ebbra, le onde delle colline, le carni abbrustolite degli animali o immerse in copiosi sughi. Tutto il resto è vaniloquio estetizzante, idolatria di un mediocre evo giunto fino a oggi. Non posso darti torto: ancora oggi si dissipano in dispute di campanile, aspettano l’insuccesso della Roma, esecrano la Juve senza capire che il riscatto è solo superarla. 
Qualche notte fa ho sognato ancora di Lojacono. Sogno banale, per quanto è facile da smorfiare. Vorrei seguire la sua traiettoria, che fu quella di un’educazione sentimentale, da Firenze a Roma, dove la sua vitalità trattenuta finalmente esplose tra risse in campo, tanghi clandestini, donne amate fino a pochi minuti prima della partita. Luciano, forse un giorno torneremo dall’esilio. Ti abbraccio.

V.

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San Pietroburgo, 4 dicembre 2012

Caro Vincenzo,

ieri sono andato all’Hermitage, e mi è sembrato di rivedere quel film di Sokurov che si aggira per i suoi fastosi corridoi, attraversando epoche e persone, fino alla vertigine finale in cui lo sguardo del regista esce fuori dal museo e si perde su un mare sterminato. Ho ripensato alle tue parole e ho concluso che non è dissimile a quella dell’arca russa la nostra piccola deriva. E’ vero, a Firenze accettano un ruolo subalterno. La Juve è già lontana, con ogni probabilità si ripeterà il solito copione. Poi tornerà il Milan, poi l’Inter, tutti gli altri saranno contenti del loro secondo posto. Ma noi forse siamo meglio?
Anche noi siamo prigionieri, di un gesto artistico se vuoi: io dalla Russia, complice la tua amicizia, alleno in incognito la squadra per cui tifavo da bambino; tu sogni di tornare a Roma (a proposito, come Lojacono, hai una bella faccia maschia da scugnizzo, adatta al tango e al pasodoble), vedi da lontano gli splendori e le miserie di Z., che tra qualche giorno ti accingi ad affrontare. Forse è tempo di non accontentarci, forse è tempo di pretendere un destino. Io dovrei stare dove sei tu ora ed essere il condottiero dei miei avi, senza perdermi in faticosi espedienti letterari. Tu non cedere, quando ti cercheranno, alle lusinghe di una vittoria contabile e senza eroismo, a questo ciclo di insopportabile ripetizione. Se desideri vincere a Roma, devi farlo solo a Roma. Aspetta che Z. compia il suo destino (lui è uno dei pochi, forse l’unico di noi, ad avere il coraggio di affrontarlo). Non basta sconfiggerli nel sogno e neppure dall’esilio. Dobbiamo essere come Ettore, scendere sotto le mura, tentare l’impossibile.
Ti abbraccio, tuo, Luciano.

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8 dicembre 2012 (sms)

Hai visto la partita? Arrivavano da tutte le parti. Non credevo si potesse giocare in questo modo. Non ti nascondo che sono felice. V.

giovedì 3 maggio 2012

Con Delio Rossi


Solidarietà a Delio Rossi.
Ieri sera si è consumato un vero e proprio capovolgimento di tutti i valori.

In una società che ha perso bussola e valori non si può non essere solidali con Delio Rossi, educatore duro e puro, uomo di calcio cresciuto a pane e Zeman capace di fare la gavetta in tutta Italia, gettarsi in imprese impossibili (come l'Atalanta 2004-2005) e avere a che fare con Lotito e Zamparini.
L'allenatore è un autorità e come tale è degna del più assoluto rispetto. Vedere un giocatore inutile che al calcio non ha dato nulla - se non parole ("sono il nuovo Totti") - prendersela con un padre come Delio Rossi fa male al cuore. Lo stesso Ljiac non ha avuto nemmeno le palle per mandarlo a fare in culo come fece Chinaglia, in quel gesto iconoclasta e sovversivo che fotografò la mediocrità della classe dirigente calcistica italiana incarnata da Valacareggi.

Il presunto talento di Novi Pazar (capoluogo del Sangiaccato, piccolo lembo di terra tra Serbia e Montenegro "oggetto del desiderio" dell'Impero asburgico e del Regno di Serbia nell'Ottocento, oggi luogo di fermenti neo-ottomani) si è limitato a reagire da bambino viziato a cui si impedisce di giocare, da checca isterica, perdendosi in un gesto degno di una soubrette a cui tolgono lo "stacchetto" sul palco del Salone Margherita, non certo di un uomo, di un giocatore, che si rapporta con un uomo che ha trenta anni più di lui.

La gogna mediatica è ancor più scandalosa, frutto della viltà dei media che denunciano solo quello che vedono e tacciono su ciò che non viene mostrato. Il fattore eticizzante della telecamera è uno dei mali assoluti del nostro tempo. Se il mondo del calcio è quello che glorifica Mancini, capace di scaricare Balotelli davanti alle telecamere (salvo poi riabilitarlo, come Tevez, per motivi di convenienza) e condannare Rossi per due schiaffi correttivi, allora stiamo andando proprio nella direzione sbagliata.
Quanto avrebbero fatto bene due schiaffi a Balotelli? Quanti schiaffi avrà dato Fascetti a Cassano? Qualunque allenatore avrebbe attaccato Ljaic al muro nello spogliatoio. Ricordiamo che Sir Alex Ferguson non ha esitato a spaccare il faccino di Beckham con uno scarpino.

Ci dovrebbe essere una levata di scudi in favore di Delio Rossi.
Mi piacerebbe sentire Mourinho (che diede del "ritardato" a Carvalho) oppure Pep Guardiola con la sua voce autorevole e mai banale difendere e dedicare le loro vittorie al tecnico romagnolo.

Il licenziamento di Delio Rossi è lo specchio dei nostri tempi, dove si punisce lo slancio, la generosità e si castiga il gesto eclatante ma, al fondo, giusto, e si incoraggia il sotterfugio, la menzogna, il vizi privati e pubbliche virtù americano e protestante. Per questo due parole vanno spese sui Della Valle, forse la presidenza più vuota degli ultimi anni, un simbolo degli inutili anni Duemila dei quali non resterà nessuna traccia. Come al solito, invece, chi ha dimostrato di stare dalla parte giusta, di ragionare secondo gli schemi di una società sana e tradizionale, non impoverita dal politicamente corretto, sono i tifosi della Fiorentina, che si sono massicciamente schierati con Delio, ribadendo che la curva è la parte sana della società del calcio.

Se per i Della Valle è giusto augurare la B alla Viola, altrettanto non si può fare per i tifosi, ciò che sicuramente bisogna fare è stringersi intorno a Delio, fare quadrato intorno a chi ha fatto l'uomo in un'Italia senza più padri e che ha fatto l'uomo in un calcio che obbliga a gesti finti come la stretta di mano iniziale e a concetti vuoti come il "fair play".

martedì 1 febbraio 2011

Il gigante di Reconquista


Quanto a Porthos, dopo aver lanciato il barile di polvere in mezzo ai nemici, era fuggito, seguendo il consiglio di Aramis, e aveva raggiunto l'ultimo ambiente della grotta, da cui penetravano, attraverso l'apertura, l'aria, il giorno e il Sole. Così, appena ebbe appena svoltato l'angolo che separava il terzo ambente del quarto, vide a cento passi da sé la barca cullata dalle onde; là erano i suoi amici; là era la libertà; là, la vita dopo la vittoria. Ancora sei dei suoi passi da gigante e sarebbe uscito dalla volta; fuori della volta, due o tre slanci vigorosi, e avrebbe raggiunto il natante. D'improvviso, sentì le ginocchia flettersi: le sue ginocchia sembravano vuote, le gambe s'afflosciavano sotto di lui.
- Oh! oh!, mormorò sorpreso, Ecco che la mia stanchezza mi è di nuovo addosso; non riesco a camminare! Che significa tutto ciò?
Attraverso l'apertura, Aramis lo vedeva e non comprendeva perché si fermasse a quel modo.
- Venite, Porthos!, gridò Aramis, Venite! Venite, presto!
- Oh!, disse il gigante, facendo uno sforzo che tese vanamente ogni muscolo del suo corpo, Non ci riesco.
Alexandre Dumas, Il Visconte di Bragelonne.

Gabriel Omar Batistuta, friulano della provincia di Santa Fe, aveva (ha tuttora, ma da molto non lo si vede più) gli occhi verdi e il sorriso ampio delle persone oneste, di quelli che la mattina si svegliano sereni e affamati e si accingono a una colazione colossale.
Quella certa mattina, tuttavia, al termine della colazione la moglie Irina deve aver notato un inconsueto lampo di preoccupazione in quegli occhi limpidi; forse gli avrà anche chiesto cosa non andasse, ma Batistuta - con quel velo di piccata vanità che hanno spesso le persone giustamente soddisfatte di sé - avrà replicato che non c'era nulla. Non che si possa nascondere qualcosa a chi ti conosce da quando avevate quindici anni; ma proprio perché lo conosce bene, Irina Fernandez avrà ritenuto di non fare altre domande. Io credo che sia andata così; e che il centravanti biondo si sia poi recato all'allenamento, a Trigoria, rimuginando ancora su uno strano sogno: aveva sognato un suo antenato, uno di quelli di Cormons, fermo in un sentiero di montagna, incapace di muoversi e dimentico dei passi che lo avevano portato fin lassù, mentre la neve, placidamente, lo ricopriva. La cosa singolare, tuttavia, era che Batistuta nel sogno si sentiva ed era a Cormons, ed era quell'uomo. Più tardi, quella stessa mattina, Batistuta avrà ricevuto durante la partitella un passaggio corto di Guigou, e per la prima volta in vita sua si sarà fermato un attimo a chiedersi come calciare quella palla, permettendo a Zebina un facile anticipo.
A differenza di tanti bambini cresciuti con il pallone tra i piedi, innamorati della sfera, e decisi anche da professionisti a non privarsi della compagnia del cuoio se non quando strettamente necessario, Batistuta era un entusiasta non della palla, ma della gioia e della gloria che questa poteva regalare se scagliata con forza e precisione. Il suo primo idolo fu Kempes, e quell'eredità rimase sempre evidente. Gabriel Omar Batistuta ha avuto con la sfera di cuoio, sin da bimbo, un rapporto estremamente professionale, e non ha esitato a farle del male quando lo richiedevano le necessità del gol. Perfino al Nou Camp di Barcellona, uno di quei templi in cui al pallone vanno tributate le più alte lodi, lui si permise di calciarne uno con violenza dentro la porta dei padroni di casa, e di zittire quella folla di esteti con la brutale essenzialità del suo gesto.
Ben presto il giovane Batistuta diventa un'anomalia nel calcio sudamericano, specie a livello giovanile: il suo modo di giocare non conosce vanità né sovrastrutture, e la sua unica funzione, il suo unico interesse è la porta. Ma il suo fisico e forse il suo carattere gli impediscono di diventare un Gerd Müller o un Inzaghi: Batistuta non staziona nei pressi dell'area come un avvoltoio e non si nasconde nelle pieghe del fuorigioco. Lui cerca il pallone, perché gli serve, anche a quaranta metri dalla porta; e quando ha la sfera tra i piedi, non esiste che la rete.

Mi sono chiesto spesso a chi si dovesse paragonare quel centravanti e, anche per via dell'assurda polemica con Passarella che gli ingunse di tagliarsi i capelli per giocare in nazionale, l'ho a volte avvicinato a Sansone: ma vedo ora che Batistuta è Porthos, è l'uomo di forza erculea e di sentimenti diretti, netti, come i suoi tiri da trenta metri. Batistuta è l'uomo che davanti a una palla che rimbalza al limite dell'area non ha dubbi, e la spedisce in rete; anche se quel calcio fa più male alla sua anima tersa che al pallone maltrattato, anche se la porta è quella di Toldo e lui ora indossa una maglia rossa e gialla. Per certi versi, Batistuta pareva in dovere di segnare; e la sua tenacia e la sua cieca applicazione appartenevano più al contadino friulano che al campione sudamericano.
È difficile abbozzare un'analisi della carriera di Batistuta e in particolare dei suoi nove anni a Firenze, nonostante le caterve di gol, nonostante lo spessore tecnico e anche morale di quella permanenza. Voi sapreste dire se Batistuta sia stato destro o mancino? Io credo che lui tirasse, semplicemente, guidato dalla sua forza e dall'assoluta limpidezza dei suoi scopi, dato che non cercava la bellezza o l'esaltazione di sé, ma solo e soltanto la rete. Ovviamente non tutti i gol di Batistuta sono stati gol di potenza o tiri da lontano; ma tutti sono stati essenziali, con il pallone scagliato da dove doveva essere scagliato, senza ghirigori e senza dubbi. Semmai, con l'età e con l'accrescersi della sicurezza il centravanti viola è diventato sempre più simile a un Titano, a una forza della natura impossibile da arginare, neanche dai potenti dei che vegliano su San Siro o sul vecchio Highbury. Batistuta era il centravanti in quanto tale, era il meccanismo per cui un pallone posto su un prato verde finiva invariabilmente in fondo ad una rete. E il Batistuta della prima stagione romana è stato il più grande dei Titani.
Poi, un giorno, il biondo semidio si è chiesto, con il terrore delle cose che abbiamo sempre ritenuto ovvie, in che modo colpire quel cuoio, e non ha saputo rispondersi. Si è fermato; e come nella caduta di massi che travolge Porthos, incapace di fuggire dall'esplosione che lui stesso ha provocato, la sua carriera è finita in un momento, senza decadenza, come capita ai meccanismi che d'improvviso smettono di funzionare. E d'altronde l'onesto e corretto Gabriel Omar non ha voluto fingere, passando rapidamente dalla Serie A al Qatar al ritiro senza aver trascinato stancamente la sua carriera per qualche stagione inutile.
Oggi Batistuta, tornato in Argentina, è un ricco proprietario terriero e gioca a polo; e chissà se gli capita a volte, mentre percorre a cavallo i suoi campi, di domandarsi come facciano quegli affascinanti animali a non fermare mai il moto inspiegabile delle loro zampe e a non cadere di colpo ventre a terra, come cade un vecchio friulano esausto su un sentiero che costeggia un torrentello, come si inceppa il piede di un titano che per dieci anni non ha smesso di scagliare saette.