La spinta che mi ha appena tirato questo bestione con la t così aspirata da sembrare una caricatura delle caricature fatte sui toscani, neanche l'ho sentita. “Leàthi”, mi dice prima di lanciarmi a tre metri da dove sono, in un punto in cui cadrei, se non fosse che qua sotto siamo in diecimila. Mi ritrovo abbracciato a una settantenne infervorata, che mi respinge via ancora prima che abbia il tempo di chiedermi che cazzo ci fa una settantenne infervorata sotto questa Curva maledetta la sera del 2 marzo, ché qua ci saranno sì e no cinque gradi.
Prima di entrare mi hanno detto che avremmo fatto un gesto di solidarietà per Borja Valero, un madrileno diventato per caso più fiorentino di certi nati in San Frediano, l'uomo più vicino a un simbolo per una città condannata a farsi tradire non appena ne elegge uno. Il lunedì precedente, a Parma, questo centrocampista con la faccia simpatica ha sfiorato la casacca del Signor Gervasoni della sezione di Mantova quel poco che è bastato per beccarsi quattro giornate di squalifica. Quel poco che è bastato per far saltare il fragile coperchio che copre il ribollire di un popolo convinto di essere vittima ma che, molto più semplicemente, non vince mai.
E quindi siamo venuti fin qua, più disperati che incazzati, per starcene stipati sotto la Curva i primi dieci minuti della partita che potrebbe tenerci ancora in corsa per il terzo posto: il Napoli ha appena finito di pareggiare a Livorno, e se vinciamo ci ritroviamo a -4 con lo scontro diretto ancora da giocare. Là fuori si gioca Fiorentina-Lazio, ma la tifoseria è convinta di stare giocando qua sotto, tra le colonne del Franchi, una partita più importante: noi contro il Palazzo, noi contro l'Ingiustizia, noi contro il destino infame e bianconero che ci ha sempre portato via tutto quello che pensavamo di meritarci. E io me ne sto lì, a prendermi le spinte.
La testa mi pulsa come fosse un tamburo di quelli che in Curva non si vedono più. Sono il tìaccacì e quelle birre stappate sempre con meno rabbia e con sempre più rassegnazione che si sono succedute da stamattina. Io me ne sto lì, e non sento neanche lo speaker che prova a svegliare uno stadio grottescamente mutilato delle sue braccia, del suo cuore, dei suoi polmoni. Non sento le formazioni, non sento l'inno, non sento neanche i catartici canti di dolore che si susseguono senza sosta. Sento solo il tamburo nella mia testa.
Perché a me non me ne frega un cazzo di Fiorentina-Lazio, di Borja Valero, del Palazzo, del fatto che non vinciamo mai, di questo pratese con la t aspirata che si atteggia a fiorentino per lavare i propri peccati dinastici.
A me frega soltanto di Alice.
E Alice stamattina è stata chiara, imprevedibile e fredda come sanno essere soltanto certi passaggi nel nulla fatti dai calciatori che amiamo chiamare geni. Ha preso il telefono, ha fatto il mio numero e dopo che le ho pasticciato un pronto ha detto due parole: è finita. Game Over. Triplice fischio su una partita conclusasi a dir bene 0-5, come se non l'avessi già provato cosa significa perdere 0-5.
Il tamburo scandisce il passaggio da una diapositiva all'altra di questo anno e mezzo. Scorrono i suoi sorrisi violenti, le sue malinconie silenziose, il ricordo del mio stupore. Ogni tanto, a forza di scorrere queste immagini, a forza di riavvolgere il nastro di questo anno e mezzo, si insinuano altri pezzetti di felicità, che sommati a quelli di Alice mi proiettano in un panopticon di nostalgia e paure.
Vedo un madrileno con la faccia simpatica, lo stesso che adesso mi costringe qui sotto, superare Mexes e siglare uno 0-2 a Milano che ci dette l'impressione che i tempi della tristezza erano finiti. Vedo lo stesso Mexes segnare a Siena il gol che ci fece capire che invece i tempi della tristezza non finiscono mai. Vedo Cuadrado che prende la palla in area e parte, in un momento eterno, verso il 4-2 che mise per sempre le cose in chiaro: i tempi della tristezza non finiscono mai, ma ogni tanto, per caso, succedono cose di una bellezza maestosa e tremenda.
Le maglie viola e i vestitini di Alice si mescolano, in un crescendo di divagazione temporale. Quando provo ad afferrare un'immagine, e a fermare il tamburo, sforzandomi di ricordare il giorno, il periodo dell'anno, ma mi restano soltanto notti dopo trasferte a Bologna rovinate da un gol di Christodoulopolos, mattine prima di un folle 4-3 casalingo contro l'Hellas, feste di compleanno passate a guardare di nascosto se davvero il giorno seguente sarebbe arrivato a Firenze Berbatov. Il mio tempo con Alice si sovrappone al mio tempo con questa Fiorentina, e mi resta solo un ricordo unico, di una cosa bella, bellissima, e allo stesso tempo capace di fare un male profondo.
Per un attimo si ferma il tamburo nella mia testa. Lo ferma il silenzio improvviso che mi si crea intorno, controcanto del boato scoppiato nel settore ospiti dall'altra parte dello Stadio. Pare che abbia segnato la Lazio. È il quinto minuto. Siamo soltanto a metà della nostra dichiarazione di guerra contro il mondo, e già abbiamo preso gol. Nessuno sa chi ha segnato, nessuno sa come ha segnato, perché ovviamente nessuno riesce a vedere, stretti come siamo tra i corpi e le colonne nella pancia della Curva, Giona moderni, ma c'è comunque qualcuno che urla “l'hanno annullato!”: un gesto assurdo, disperato, d'amore.
Il tempo di crederci e arriva la sentenza dello speaker:
«perlalaziohasegnatoilnumeroventisettecana».
Subito dopo arriva anche la solita fitta che provo quando subiamo gol, ma passa all'istante, sovrastata dal tamburo. Altri cinque minuti di inferno e saliamo sugli spalti, e mentre il tamburo continua a battere, intorno a me è forte la convinzione che adesso, con il tifo presente, la squadra riuscirà a ribaltare una partita nata male anche per colpa di un gesto un po' infantile come lo sciopero di una Curva. Non succede. In realtà non succederà assolutamente niente per gli ottanta minuti più recupero, che io trascorro con gli occhi fissi sul campo e la testa ora in camera di Alice, ora su una collina poco fuori il centro di Cracovia, ora in riva al fiume. La partita finisce 0-1, e insieme a questa e alla storia tra me e Alice, finisce anche la Fiorentina di Montella, che inizia quella sera il suo lentissimo e angosciante declino.
Cracovia è un posto molto bello per ambientarci i vostri ricordi più malinconici
Quando torno a casa, guardando gli highlights, scopro che Lorik Cana da Gjakovë, difensore centrale patriota e operaio, ha deciso di segnare il suo quarto gol nelle sue tre stagioni di Serie A in rovesciata. Più precisamente, replicando un'altra rovesciata fatta da un difensore a Firenze contro la Fiorentina, la Rovesciata Perfetta, la prima immagine religiosa delle nostre vite: la rovesciata di Carlo Parola.
Si interrompe il tamburo.
Di colpo mi chiedo di come sia possibile che Lorik Cana abbia deciso di fare un gol in rovesciata, mentre eravamo a spintonarci sotto la Curva per solidarietà nei confronti di un madrileno con la faccia simpatica, la stessa sera del giorno in cui Alice ha deciso di lasciarmi.
Mi interrogo su quale deve essere il posto del calcio nella vita di un uomo: se deve essere uno svago, se ne deve essere la ragione ultima, se semplicemente è un contenitore di avvenimenti in attesa di farsi dare un significato da persone bisognose di dare dei significati o, forse, se deve essere ciò che scandisce il tempo che scorre in sottofondo e che ci aiuta a ricordare quando sono successe le cose davvero importanti.
Mi sforzo, ma non capisco.
Quella rovesciata di Lorik Cana resta per me una cosa insondabile, mistica e violenta. Come i sorrisi di Alice.