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venerdì 19 settembre 2014

“Nessuno vuole essere il calciatore di Sacchi”. Estratti dal romanzo "Arrigo" di Jvan Sica (edizioni INCONTROPIEDE, 2014)

Nell'ottica dell'amicizia e della collaborazione con le edizioni inCONTROPIEDE siamo felici di pubblicare alcuni estratti di "Arrigo. La storia, l'idea, il consenso, la fiamma", l'ultimo volume pubblicato dai tipi di Alberto Facchinetti, vale a dire un bizzarro, ispirato, originalissimo libro di Jvan Sica - al crocevia tra la biografia, il romanzo e la sceneggiatura - dedicato al più amato degli allenatori italiani della nostra infanzia, e non solo dai tifosi milanisti: Arrigo Sacchi. La penna di Jvan Sica, non nuova a queste imprese, ha seguito cammini nascosti anche ai protagonisti di questo libro per ricostruire a modo suo - ma sempre con umilté - l'immaginario personale e collettivo dell'allenatore di Fusignano, sullo sfondo di un'Italia che ormai, probabilmente, non esiste più. Come quel calcio, d'altronde.

***

21 ottobre 1987
In albergo dopo la partita di Coppa Uefa Milan-Espanyol 0-2
Lecce (Italia)

“Cos’è successo Arrigo?”.
“Non mi seguono, non mi vogliono”.
“Ma chi?”.
“Tutti, nessuno escluso. Nessuno vuole essere il calciatore di Sacchi”.
“Ma c’è qualcuno che te l’ha detto in faccia, qualcuno che rema contro?”.
“Non è un problema di remare contro. Sento che stanno iniziando ad odiare il mio essere in primo piano rispetto a loro”.
“I calciatori li conosci…”.
“Sì, li conosco, loro pensano che basti l’esperienza. Sono come quei vecchi falegnami che ormai pensano di non dover imparare più niente. Sono delle merde, guarda”.
“Dai Arrigo calmati, lo sai che ti stimano”.
“Non più ormai, non più. Lo sai cosa mi ha detto uno l’altro giorno: ‘Mister, qua ci facciamo il culo e sembra che in campo ci vai tu, non è mica giusto’”.
“La società?”.
“Una parte è con me”.
“E l’altra?”.
“L’altra sta già aizzando i tifosi. Vogliono Trapattoni, pensa un po’”.
“Davvero?”.
“Sì”.
“E Berlusconi?”.
“Berlusconi è incasinato. L’ho sentito due ore fa, mi ha parlato dell’importanza di mostrare sempre una faccia sorridente. Vincere le guerre, a noi le battaglie non interessano”.
“Ha ragione”.
“Ha ragione ma io non vado da nessuna parte se non prende posizione nei confronti della squadra”.
“E diglielo chiaro e tondo”.
“Non è facile, non si vuole esporre”.
“Perché?”.
“Perché cazziare uno dei vecchi in pubblico vuol dire mettersi contro una parte dei tifosi e a lui serve il consenso pieno, vuole che tutti lo adorino, lo sai com’è fatto, no?”.
“Ma perché oggi avete giocato così male?”.
“Non lo so, non riesco a capire. Siamo in forma, in allenamento siamo perfetti. Oggi in partita invece continuavo a chiamare Tassotti, Donadoni, tutti quanti ai loro compiti ma loro se ne fregavano, tutti facevano il cazzo che volevano in campo”.
“Gli olandesi?”.
“Ah quelli poi. Gullit pensa col cazzo, è troppo istintivo. Van Basten mi sta sui coglioni, con quell’aria da Cristo sceso in terra. Quando gli faccio vedere i tagli ad uscire in allenamento mi ride in faccia, come per dire: ‘E io, Marco Van Basten, mi metto a fare ste stronzate’”.
“Mi hanno detto che è mezzo infortunato”.
“È tutto infortunato. Ha caviglia e ginocchio fuori uso, ma deve giocare per forza. Lo abbiamo esaltato come il nostro Maradona e adesso, che faccio, lo metto in panchina? Ma è rotto, gli dico. E tu fallo giocare rotto. Io che punto tutto sull’efficienza fisica devo far giocare un giocatore rotto”.
“Senti Arrigo, tu al Milan non sei andato a campare di rendita. Tu stai là per un motivo ben preciso”.
“Una missione”.
“Ecco, una missione, bravo. Tu non puoi far decidere agli altri il tuo destino. Se Van Basten è rotto e decidi di metterlo fuori, deve stare fuori. Se Tassotti non ti ascolta, lo sostituisci con uno della Primavera. Se Gullit è fuori forma, lo sbatti fuori”.
“Sono in forma, non mi ascoltano”.
“Appunto, chi non ti ascolta si accomoda alla porta”.
“Non è facile”.
“Devi decidere tu, sei tu a comandare”.
“Siamo in tanti a comandare”.
“Così finisce tutto Arrigo, se non comandi tu finisce tutto. Parlane con Berlusconi, lui ti segue”.
“Ok, ma non è facile”.
“Fallo”.
“Adesso vedo”.
“Fallo”.




4 gennaio 1988
Incontro con Silvio Berlusconi
Arcore (Italia)

La stanza è angusta, ma l’amaranto alle pareti dà una piacevole tranquillità. Le librerie tutte intorno sono zeppe di libri, oggetti, fotografie, fogli. Non c’è uno spazio libero, tutto è ricolmo fino all’eccesso. La scrivania invece è vuota: un recipiente dorato contiene tre penne, un portadocumenti in pelle. Il Presidente accoglie Arrigo Sacchi con un gran sorriso.
Di fronte alla scrivania, affianco alla porta d’ingresso, la televisione è sintonizzata su una delle reti del Presidente. In quel momento c’è un break pubblicitario.
“Dove va il piccolo mugnaio bianco?
Clementinaaaaaaaaa”.
Il Presidente accoglie Arrigo Sacchi con il suo solito buonumore. Si complimenta per la partita di ieri. L’aggettivo che ama usare è quello con cui ha descritto la partita del suo Milan ai giornalisti: straripante.
“Il merito”, dice il Presidente, “è anche suo, Signor Sacchi, bravo nel far giocare alla squadra un calcio spettacolare e redditizio insieme”.
“Ragazzi sono arrivati i nuovi Mostruovi
I Mostruovi son tremendi, una vera novità…”.
Arrigo Sacchi si distrae, la tv è a volume alto. Il Presidente la indica e dice che è stato lui la fortuna di quella marca. Senza la sua capacità visionaria di dare spazio nelle sue tv a marchi anche piccoli oggi molte di queste aziende non esisterebbero e non ci sarebbero tanti occupati nelle fabbriche che producono i giocattoli, i mobili, le pentole.
“Ehi Paolo.
Buongiorno Signor Parroco.
Non hai ancora aperto il bar? Senza il tuo espresso chi mi dà la forza per suonare le campane?”.
Il Presidente guarda incantato. Ha aperto soltanto la porta, la gente non aspettava altro. Colori, musica, persone che finalmente ti sorridono e ti dicono quanto è bello il mondo, quanta è bella la vita. Alcune volte quello che fa gli sembra una missione per far stare meglio tutti. Un po’ quello che vuole fare anche con il suo Milan, una squadra che incanti e per cui tutti prima o poi facciano il tifo. Una squadra da guardare ed ammirare. Il Presidente sarà contento quando gli avversari uscendo dal campo diranno ai giornalisti: “È stato meraviglioso guardare questa squadra dal vivo”.
“Zigulì è una pallina che mi fa sentire più carina
Zigulì è una pallina che la fa sentire più carina”.
Il Presidente parla del futuro. Il domani non è dei vecchi bacucchi della politica, del giornalismo, del calcio, se vogliamo restare al mondo di Arrigo Sacchi. Il futuro è delle persone che vogliono dire cose nuove. Il Presidente risottolinea la parola “dire”, perché oggi se non riesci a comunicare alla maggior parte delle persone puoi inventarti tutto quello che vuoi, ma resti comunque un signor nessuno.
“Novità?
C’è un bel regalo, mamma.
Un altro forno, ma se c’è l’ho già?
Ma non lo usi mai…”.
E Sacchi lui lo ha notato e voluto proprio per la sua capacità di parlare del calcio in maniera nuova, lontana dalle piccole beghe di cui ogni giorno i quotidiani sportivi si occupano. Il Presidente ha bisogno di guardare dall’alto accompagnato da persone che insieme a lui si spingono un passo più in là.
Il Presidente dice che non è un fatto di supremazia, voglia di essere il numero 1, qui si parla di valori, di una nuova società, di una nuova Italia, finalmente. L’italiano nascosto dietro le tonache della mamma o del parroco deve scomparire, lui vuole un nuovo italiano che guarda in faccia l’America e le dice quello che non va.
“Oh fermamose n’attimo, io gnela faccio più.
Dai, non fare lo stupido, domani c’è la gara
Ma che gara e gara, so’ cinquanta chilometri che stiamo camminando…”.
Il Presidente è certo, lui ci riuscirà. Con uomini come Arrigo Sacchi che ci credono, perché la fede è la forza che ti fa andare avanti nelle difficoltà.
Il Presidente lo congeda mentre il canale ricomincia il flusso normale delle trasmissioni. Il sorriso del Presidente è sincero, largo, contagioso.
Arrigo Sacchi non ha più voglia di pensare o solo di fermarsi un attimo per riflettere. Ha solo un desiderio: ricominciare a fare il prima possibile.



27 novembre 1988
Negli spogliatoi dopo la partita Napoli-Milan 4-1
Napoli (Italia)

“Ci hai fatto impazzire oggi”.
“Ero in forma, è andato tutto bene”.
“Questa volta è toccata a voi”.
“Fortuna, Mister”.
“No, Diego la fortuna non esiste. Tu sei il migliore”.
“Grazie Mister, tu sei sempre gentile con me”.
“Te lo meriti”.
“Anche tu sei il migliore”.
“Con te succede una cosa che non succede con nessun altro calciatore. Non riesco a tagliarti fuori dal gioco, ho provato diverse soluzioni in questi due anni ma quasi mai sono riuscito a non farti giocare”.
“Giocare è la mia vita, se mi togli il pallone Mister mi fai diventare triste”.
Sorridono.
“Peccato che non potremo mai incontrarci”.
“Perché?”.
“Perché non potrei mai allenarti”.
“Non sono così cattivo come dicono”.
“No, anzi, tu sei il giocatore perfetto, ma io e te non andremmo d’accordo”.
“A me piace come giocano le tue squadre, sai attaccare, non giochi come facciamo noi. Hai visto anche tu, difendiamo sempre in tanti e quando attacchiamo tutti aspettano me. Quando vedo il Milan giocare mi piace”.
“Grazie Diego ma tu non puoi giocare nelle mie squadre, intendiamo il calcio con la stessa intensità ma da due prospettive totalmente diverse. Quando scendi in campo tu sei il calcio, per novanta minuti non esistono avversari, compagni, arbitri, pubblico, per te esiste solo il pallone e quello che tu con il pallone puoi fare. La partita diventa una tua invenzione, una tua creazione”.
“Mi piacerebbe fare parte di una tua squadra, capire come alleni tutti questi campioni”.
“Sai come faccio? Gullit sa che è importante quanto Colombo e Maldini sa che senza Massaro non potrebbe giocare come fa. Come farei a farlo con te? Come farei a convincerti che sei uguale agli altri?”.
“Sono un uomo curioso, potrei seguire quello che dici”.
“No Diego, sarebbe una bestemmia per te e un disastro per me. Vincere con te non ha senso, tutto sfuma, l’allenatore non ha alcun valore quando giochi. La partita è di Maradona e di nessun’altro, io non ci riuscirei a stare in silenzio”.
“Saremo sempre avversari?”.
“Sempre Diego, i migliori non possono stare insieme”.

giovedì 29 maggio 2014

Prima che prenda forma il cambiamento

La derrota no merece ni una lágrima
(D. Simeone)
 

Periodaccio.
Il Bologna in B.. Il Real Madrid con la Decima in bacheca.. Prandelli con i dubbi su Verratti.. Le pagine di Open che certo non aiutano nel perenne sforzo di trovare un malsano equilibrio. Provo a non crollare. Provo a distrarmi con un pò di calcio non giocato, nell'attesa che inizino 'sti benedetti Mondiali in Brasile. Un calcio d'inizio prima che nella mia mente prenda forma il cambiamento.
 
1. Cosa abbiano in testa a Milanello proprio non lo capisco.
La cacciata di Allegri ci stava, come Seedorf nuovo allenatore. E credo che Seedorf abbia pure fatto bene, vista (come sempre) la rosa a disposizione e la posizione in classifica da cui è partito. Ora spunta il nome di Inzaghi e il Milan si accartoccia sulla risoluzione del contratto dell'olandese.
Ma se Seedorf era un compromesso, un traghetto fatto e finito, perchè un contratto a due anni e mezzo? E poi - ma questo è un punto mio - se devi prendere Inzaghi tanto vale che tieni Seedorf, no? Nel senso, non stai prendendo Jorge Jesus o Unay Emery o comunque un allenatore emerso.
 
2. Guaraldi perlomeno ci sta provando. Ha parlato con lo staff di Zanetti (che a breve tornerà da un viaggio di lavoro in Asia e scioglierà le riserve) e avrebbe pronta l'alternativa: Massimo Mian, imprenditore e politico, azionista, tra l'altro, de l'Unità e già presidente del Pisa. Intanto servono i soldi per pagare stipendi e tasse, altrimenti scatta la penalizzazione per il prossimo campionato.
La scelta dell'allenatore per risalire è legata a chi sarà l'azionista di maggioranza. Guaraldi ha incontrato Zeman. Zanetti - trapela - sarebbe più orientato su Pioli (ancora sotto contratto) o Pecchia.
 
3. Per chi ancora non lo avesse capito, il Barcellona cerca un centrale di difesa e una punta di peso. Per chi ancora non lo avesse capito, Cesc Fabregas e Dani Alves sono sul mercato. I nomi sono tantissimi: Miranda, Benatia, Marquinos, Godin, Laporte e Mathieu (Valencia). Tutte trattative difficili. Tutti nomi che costano uno sproposito. L'errore di Zubizarreta: aver temporeggiato troppo nel coprire questo ruolo. Il centrale doveva essere in rosa già da tempo. Ora costa. Ad ogni modo, bene rifondare, magari pure falsificando un pò la filosofia. Il tiqui-taka, l'abbiamo chiaro tutti ormai, rende solamente quando sei al top della condizione, altrimenti sono sberle.
 
4. Sembra che l'Italia stia preparando il Mondiale in una maniera ultra cazzuta.
C'è pure una casetta di allenamento a Coverciano in cui vengono riprodotte le condizioni climatiche che gli Azzurri dovranno affrontare a Manaus e dintorni. Apps e tecnologie sofisticatissime. Sono carico. Possono succedere buone cose, anche perchè il livello - almeno sulla carta - è abbastanza basso. #vodkaeBerocca
 
5. Quanto vende la maglia Nike dell'AS Roma quest'anno? Roba da non credere..
 
6. L'immagine di Simeone che si fionda in campo cercando Varane, vi confesso, mi ha fatto salire un'adrenalina pazzesca.

giovedì 13 febbraio 2014

Adel Taarabt, contro l'accelerazionismo




Gioca con lentezza, Adel Taarabt. Gioca con la palla, e per la palla. La prende, l'accarezza, la modella, la nasconde e poi la espone, la dona e la pretende. In quell'unico momento dilatato all'infinito che sono i novanta minuti della partita, come un artigiano la lavora per addizione e per sottrazione. La plasma. La crea muovendosi con lei nello spazio consentito dal campo, unica disciplina doverosa e possibile. La sua ubiquità sul prato verde, la sua insostenibile presenza in ogni zona del campo, non è fatta di corsa, di atletismo, è un movimento lento di costante seduzione della palla.


In un'epoca di tardo capitalismo calcistico in cui l'eccellenza sublime è rappresentata dal fisico di Cristiano Ronaldo, impressionante il suo corpo inorganico trasformato dalle macchine, dall'esile ragazzino che ieri solleva pesi per trovare equilibrio alla mostruosità tecnocratica della sproporzione muscolare dell'oggi, quella di Taarabt è una resistenza affettiva. Non rifiuta il moderno e i suoi colori. Non ricorda né rimpiange i bei tempi mai esistiti. Non propone nemmeno un ritorno al futuro incrostato di nostalgie kitsch e goffi pastiche postmoderni. Taarabt oppone i ritmi interiori di un corpo ancora umano all'accelerazionismo e alla velocità della transizione cibernetica.


Cristiano Ronaldo è accelerazione: movimento del falso in divenire, la sua massa muscolare è la cicatrice bionica conficcata nella gola dell'uomo contemporaneo. Messi è velocità: sublimazione della perfezione tecnica, prodotto seriale incapace di esistere al di fuori della confezione in cui è venduto. Nè Ronaldo né Messi, né uomo bionico né prodotto di nanotecnologie, Taarabt rifiuta di sacrificare il proprio corpo alla tecnica scegliendo di restare umano. Il suo fisico normale di atleta, in peso e altezza, i precetti islamici imposti dal padre immigrato in Provenza che proibiscono alcool e fumo quale unica disciplina imposta, sono laica resistenza alla teleologia della macchina.


Le sue migliori stagioni al Qpr, con Neil Warnock, in una squadra che giocava prevalentemente in transizione, movimento collettivo che coglie l'essenza del gioco: possesso palla al servizio del contropiede. Lui ne è il fulcro di quel gioco. A lui la palla va e da lui riparte, da lui sosta il tempo necessario per rompere gli equilibri e creare superiorità numerica. Contro Ronaldo e contro Messi, Taarabt è il numero dieci classico eterno, antico e moderno: parte da destra per effettuare il passaggio, parte da sinistra per rientrare al tiro, giostra nel mezzo disegnando arabeschi che aprono il gioco e danno il via alle danze.


I primi anni di vita li passa tirando calci al pallone nelle strade della Medina di Fes-al-Bali, una della più grande aree al mondo dove non possono passare le macchine. Dove la tecnica è costretta a servire e non potendo dominare si arrende alla lentezza della passeggiata. Il cammino come libertà dell'essere umano dal lavoro, rifiuto dell'impazienza, esilio della fretta. In quella placida, sonnolente e polverosa Medina, negli spazi aperti delle immense piazze Taarabt affina la visione periferica dell'assist. Nei lunghi vicoli bui e stretti acquisisce la razionalità del dribbling. Il paragone con Zidane è doveroso.


Dopo essere cresciuto sull'altra sponda del Mediterraneo, si trasferisce a Londra dove i mercanti del tempio vendono utili libertà preconfezionate. L'impatto al Tottenham è duro. Reticente a ogni ritorno al fordismo e insolente a ogni adattamento al due punto zero, rifiuta l'occasione e si dedica allo studio degli antichi testi di Adan Zzywwurath. Quando è pronto lo hanno retrocesso in Championship, al QPR. Lo prende in mano e lo riporta in alto. A passo d'uomo, con lentezza, ricordando che a Fes-al-Bali non c'erano macchine e quindi rifiutando velocità e accelerazione, Taarabt si fa idolo e profeta nell'isola del turbo capitalismo. Ma essendo umano non ne regge il peso. Conosce la sconfitta e la abbraccia.


Sottraendosi al lavoro si spoglia di titoli e onorificenze imperiali. Per restare umano smette di giocare e si rifugia nuovamente nella lettura. E' nei laici testi sacri della sapienza cinese che comprende la verità del paradosso, se la velocità lo insegue accelerando non potrà mai superare la sua lentezza. Dopo essersi chiesto che fare, è finalmente pronto a guidare la rivoluzione. Lo chiama il Milan, lui si volta verso il meridione e la circostanza appare favorevole: grande è la confusione sotto il cielo di Milano e la situazione è pertanto eccellente. Taarabt, il calciatore che gioca con lentezza per combattere il turbocapitalismo, è pronto a guidare la lunga marcia della rivoluzione rossonera.

lunedì 4 novembre 2013

Tra cinema e la chiusura di Sportitalia


La vita di Adele

Si fa un gran parlare di La Vita di Adele di Abdellatif Kechiche, il film che ha fatto impazzire Cannes.
La prima parte del film è effettivamente quasi perfetta. Come recitazione, come svolgimento e come inquadrature (la scena del bacio sulle scale). Poi il film si blocca, perde all'improvviso di consistenza, diventando insopportabile. La svolta è la scena dello screzio fuori da scuola tra la protagonista e un'amica, ultimo momento in cui viene affrontato il tema centrale.
Da quall'istante tutto si perde in stereotipi, circostanze e piatti di spaghetti bolognaise mangiati avidamente (come se chiunque potesse essere Christoph Waltz che mangia uno strudel). Le protagoniste si ritrovano infangate in ritratti, love parade e pianti isterici.
Il film, quando dovrebbe, non racconta nè l'uscita dall'adolescenza, nè l'omosessualità, nè l'amore.
Per lo più inutile e fuori luogo. Una delusione lunga tre ore, insomma.

* * *

Dopo 9 anni di calcio francese e sudamericano, di sport a 360 gradi e dirette calciomercato, chiude Sportitalia. O meglio, Sportitalia diventa LTSport. Lo annuncia in diretta un Michele Criscitiello a mezza via tra il tono severo e quello scherzoso. Lo scherzoso per sdrammatizzare, il severo per i 35 giornalisti la cui posizione rimane in bilico nel passaggio alla nuova emittente.
Di fatto, per noi spettatori non cambierà quasi nulla, giusto gli studi e un minimo i contenuti. Per loro, qualcosa di più.
Da Lacrime di Borghetti pieno sostegno a Sportitalia.

* * *

Barbara Berlusconi

La vera notizia del weekend è la crisi del Milan.
O meglio: Barbara Berlusconi che, risultati e campagna acquisti alla mano, ipotizza cambi a livello dirigenziale.
Allegri sempre più in bilico, Balotelli sempre più nell'occhio del ciclone (senza cresta e orecchino - peraltro - non mi piace, meglio il vecchio look) e Robinho sempre più titolare. Gli schiaffi viola hanno fatto malissimo.
Si ferma, invece, a Torino la striscia della Roma di Garcia (complice anche qualche spinta di troppo e un rigore che manca all'appello). L'enorme sforzo dei giallorossi è ora ridimensionato dai soli 3 punti che li dividono dalle inseguitrici. In altre parole, pesano un infinito alcune decisioni arbitrali pro-Juve e pro-Napoli.
Infine, Toni con attorno quella marea di sudamericani semi-sconosciuti fa impazzire.

Tutto questo per dire che stasera Bologna-Chievo è fondamentale e che presto o tardi vi esporrò la mia teoria sul perchè i jeans skinny fanno belli i fondoschiena - oggi non ho tempo.

venerdì 25 ottobre 2013

Béla Guttmann, "L'Ebreo Errante" PT.1


Prendete la teatralità di Josè Mourinho, il “pugno di ferro” di Fabio Capello e il fascino romanzesco di Brian Clough, ne verrà fuori un allenatore o forse molto di più. Una storia. Un uomo. Quest’uomo è Béla Guttmann.

Béla Guttmann con la divisa dell'Hakoah Vienna

Bela il calciatore
Béla Guttmann nasce il 27 gennaio del 1899 a Budapest da una borghese famiglia ebraica. I genitori entrambi insegnanti di danza classica lo avvieranno verso la loro stessa professione ma con scarsi successi. A 16 anni Guttmann, dopo aver conseguito il diploma da insegnante di danza classica, s’innamora del calcio. Un amore che durerà per tutta la vita e lo consegnerà alla storia.

Diventa professionista tra le file del Torekvés, squadra della serie B ungherese. L’allenatore vede in lui una grande punta, i giornali vedono in lui “un ragazzo allergico alla corsa e al sacrificio di squadra”. Guttmann si congeda a modo suo dal Torekves, siglando una tripletta nel match contro lo Zsak primo in classifica e imbattuto. Nonostante ciò i giornali saranno lapidari: “Guttmann il peggiore in campo. Non ha corso un solo metro in tutta la partita. Non ha fatto altro che ricevere palla e tirare”. Anni dopo Guttmann, ricorderà con ghigno beffardo la vicenda : “Il calcio è cambiato. A inizio carriera feci 3 gol alla prima in classifica ma venni massacrato dai giornalisti per aver corso poco. Ora se fai un gol contro un’acerrima rivale, sei considerato un eroe a vita”. E’ solo l’inizio della sua carriera da professionista e già si avverte forte il sapore del suo talento tutto “genio e sregolatezza”.

Il talentuoso Guttmann si trasferisce a Vienna dove il calcio, non solo è in forte espansione, ma anche tema di dibattito nei salotti intellettuali dei primi del 900. Passa alla leggendaria Hakoah Vienna, squadra formata esclusivamente da calciatori ebrei, la maggior parte dei quali (Guttmann compreso ndr) fuggirono dall’Ungheria dopo l’ascesa al potere dell’Ammiraglio Horty e le conseguenti pressioni antisemite del suo governo.

L'Hakoah di Vienna  (Anno 1925)
La spiccata personalità di Guttmann non tarda a manifestarsi, Nel contratto con l’Hakoah, Guttmann inserisce una clausola secondo la quale deve giocare esclusivamente con divise di seta in quanto la sua pelle è troppo sensibile ad altri tipi di tessuto. Clausola che all’inizio gli causa non poche divergenze con stampa e tifosi.
Ma nel calcio sono i risultati che contano e i risultati, sono sotto gli occhi di tutti.

Il promettente ed eccentrico ungherese è un talento puro, viene spostato a centrocampo dove gli si richiede meno corsa e dove può liberamente lanciare prelibati palloni ai suoi compagni. Dopo due anni, all’alba dell’inaugurazione del primo campionato austriaco, Guttmann ottiene uno storico rinnovo di contratto. Bela e l’Haok si legano per altri 3 anni ed il compenso percepito dal giovane regista, è di ben un quarto degli introiti della società. I mormorii dei giornali vengono messi a tacere dalle straordinarie prestazioni dell’ungherese e dalla vittoria del campionato.

Il viaggio negli U.S.A.
L’Hakoah di Vienna, divenne leggenda in tutta Europa, complice anche l’epica vittoria contro i “maestri” inglesi del West Ham. Infatti, mai nessuna squadra europea era riuscita prima di allora a battere una squadra inglese, per di più in casa, soprattutto 5 a 0.
Dopo la vittoria del campionato e il “Successo inglese”, l’Hakoah partì per un tournee negli Usa, proprio come fanno i top club ai giorni nostri, seppure con differenti intenti. Infatti, la squadra di Vienna, partì alla ricerca di fondi per la “causa sionista”.
Giocarono dieci partite, tutte vinte. Bela Guttmann ricorderà così l’esperienza negli Usa, terra dove se il calcio è quasi un tabù ancora oggi, figuratevi nel 1926.
 
Durante la prima partita, nonostante un largo vantaggio della nostra squadra, notammo un particolare. I tifosi americani non esultavano ai gol bensì a tiri alti e fuori dallo specchio.
Probabilmente confondevano il calcio con il loro football. Bastò uno sguardo per capirci tra compagni. Iniziammo così a tirare bordate, esaltando i tifosi che a fine partita mi portarono in trionfo
”.

Béla Guttmann decide di rimanere negli Stati Uniti e con lui molti altri dei suoi compagni dell’Hakoah. Viene messo sotto contratto dai New York Giant, dove percepisce l’ingaggio record di 500 dollari mensili per la prima stagione e di mille per la seconda, oltre ai costi dell’alloggio. Dopo due anni però, i Giant’s vengono sospesi dal campionato in seguito a uno scandalo di “fondi neri” . Bela ricontatta i suoi ex compagni dell’Hakoah rimasti come lui in America e decidono di fondare l’Hakoah All Star, squadra nata con “l’intento di promuovere il calcio nelle Americhe” attraverso blasonate amichevoli. I giornali dell’epoca parlano di una realtà ben diversa. E’ risaputo che durante il crollo della borsa del 1929, Guttmann perde tutti i suoi beni e cade in disgrazia. Il suo scopo quindi, ben meno nobile, è quello di guadagnare per poi far ritorno in Europa. Riesce anche in questo intento.
Guttmann torna in Austria nel 1932, dove disputa ancora 4 partite con l’Hakoah di Vienna prima di annunciare l’addio al calcio giocato.

Bela ha un solo obiettivo in mente: diventare allenatore. Non solo ci riuscirà, ma rimarrà per sempre nella storia come uno dei personaggi più intriganti e vincenti della storia del calcio.
Un furbo, un vincente, un cinico, un approfittatore, questo è Bela Guttmann già da calciatore. Tutte queste virtù non faranno altro che amplificarsi nella seconda parte della sua carriera, quella da mister.

Il praticantato di Vienna e il sogno olandese
A soli 34 anni Béla Guttmann diventa un allenatore. La sua squadra storica, l’Hakoah di Vienna, gli concede due anni di contratto, ma ne limita la libertà di lavoro. L’Hakoah gli impone lo staff, in quanto reputa l’ungherese ancora inesperto per lasciargli simili privilegi.

I risultati non saranno esaltanti, Guttmann conquista due decimi posti. Al termine dei due anni, di comune accordo con la società, ognuno va per la sua strada. Quella di Guttmann è in salita, tutti sanno che ha un brutto carattere, è un “odioso uomo, pieno di sé" , titolano i giornali dell’epoca e per di più “totalmente inesperto”. Riesce a trovare un incarico grazie alla raccomandazione del padre Abraham e dell’allenatore della nazionale austriaca, Hugo Meisl, compagno di discussioni nei salotti della Vienna bene.

Si trasferisce in Olanda, precisamente all’SC Enschede (oggi confluita nel Twente ndr). Arrivato in Olanda la società, che prima aveva promesso un contratto di un anno, cambia le carte in tavola e per cautelarsi dalle voci arrivate sul conto del mister ungherese, offre un trimestrale con formula di rinnovo per altri 9 mesi in caso di risultati positivi. Guttmann è stizzito ma accetta. I risultati sono esaltanti, si vedono sprazzi di ottimo calcio. All’alba della scadenza del contratto l’Enschede è terzo in classifica a 5 punti dalla prima. Al tavolo delle trattative Guttmann si presenta con una sola richiesta alla società : un premio record in caso di vittoria del campionato. Si racconta che il Presidente dell’Enschede scoppiò a ridere in faccia a Guttmann pensando si trattasse di uno scherzo, ma una volta compresa la serietà della richiesta, accetta premio e prolungamento sino alla fine della stagione. La squadra si convince dei propri mezzi e ottiene una serie di vittorie , aggiudicandosi il girone Est.
Il campionato olandese allora era diviso in 5 gruppi (Nord-Sud-Ovest I e Ovest II).

Classifica finale Eredivise girone Est

Arrivato al turno finale, il sogno dell’Enschede s’interrompe bruscamente contro il Feyenoord, che si laurea campione d’Olanda per la felicità della dirigenza che, se avesse dovuto pagare il premio concordato con Guttmann, avrebbe dovuto dichiarare la bancarotta del club.

La seconda stagione non è così soddisfacente. La rosa rimane la stessa dell’anno precedente a causa della crisi finanziaria del club e l’Enschede conclude al 4 posto con ben 12 punti di ritardo dalla prima in classifica, Go Ahead Eagles.
Guttmann abbandona la squadra alla scadenza del contratto nonostante l’insistenza della società per un rinnovo. Ritorna alla sua amata Hakoah, che non ha mai smesso di seguirne la sua evoluzione nel suo nuovo ruolo. E’ il 1938 e la Germania di Hitler invade l’Austria, l’Hakoah squadra di cultura ebraica viene dismessa e i suoi componenti iniziano a fuggire per il mondo. Tra questi Béla Guttmann.

L’ungherese si rifugia nella sua terra natale dove trova impiego nell’Ujpest. In un anno il mister vince campionato e Mitropa Cup, antenata della moderna Champions League. I risultati sono frutto di un grande calcio espresso dal team ungherese, che trova la migliore espressione in un nuovo modulo che sta prendendo piede nel calcio mitteleuropeo, il 4-2-4.

 
Fase ad eliminazione dirette Mitropa Cup 1939
Dopo la vittoria della Mitropa Cup, il campionato ungherese, come la maggior parte dei campionati europei, viene interrotto e Guttmann sarà latitante sino al 1945.
Durante l’olocausto perde il fratello maggiore, l’unico componente rimasto della sua famiglia. Lui sparisce insieme alla storica moglie Marienne, che presumibilmente sposa nel 1942. Dove si sia rifugiato rimarrà per sempre un mistero. Lui ogni volta che veniva interrogato sul tema rispondeva laconico “Dio mi ha aiutato”.

Il ritorno
Il ritorno ufficiale in attività di Béla Guttmann risale al 1945, quando firma un contratto annuale con il Vasas, l’altra squadra di Budapest come l’Ujpest. Conclude con un secondo posto e il contratto non viene rinnovato dalla società per alcune divergenze con i calciatori, che mal sopportarono il suo passato con l’eterna rivale.
L’anno successivo Guttmann parte alla volta della Romania, direzione Bucarest.
Firma per il Ciocanul (oggi Dinamo Bucarest ndr), il presidente ebreo della squadra romena, diede all’ungherese pieni poteri per risollevare la squadra ed il calcio romeno. Guttmann, attento osservatore finanziario, decide di essere pagato in natura, causa l’altissima inflazione della Romania post guerra mondiale. L’esperienza romena, una delle più brevi della sua carriera, s’interrompe dopo sole 13 giornate, quando il tecnico ungherese lamenta una continua interferenza di alcuni dirigenti nelle scelte tecniche.

Arriva la seconda chance in Ungheria, ancora alla guida dell’Ujpest, dove senza difficoltà Guttmann impone il suo 4-2-4 e vince il campionato a mani basse esprimendo ancora una volta un gran gioco. Ma Guttmann è un giramondo, un eterno traditore e in quanto tale, ancora una volta, tradisce. A scadenza del contratto s’invaghisce del progetto dell’Honvèd, la terza squadra di Budapest, che è arrivata seconda nel campionato appena conquistato dal tecnico. Trova una squadra tecnicamente fortissima e promettente, al suo interno c’è un talentuoso ragazzo ungherese, un certo Puskàs, con il quale non intrattiene però rapporti idilliaci.

A Sinistra : Béla Guttmann a destra Ferenc Puskàs
All’inizio del secondo tempo di una difficile partita contro il Gyor, Guttmann chiama la sostituzione del suo difensore Bozsik. Puskàs, che assiste alla scena, invita il suo compagno a non uscire dal campo. Béla, scuro in volto esce dalla zona tecnica, si avvia verso gli spalti della tribuna, raccoglie una rivista ippica, si accende il sigaro e non alza la testa sino alla fine della partita. Poi si dirige verso la fermata del tram più vicina allo stadio, vi sale sopra e nessuno lo vede più per mesi.
Era stato profetico il mister, mesi prima in una conferenza stampa.
Alla domanda sull’importanza di aver buoni rapporti con i giocatori disse: “Controlla la stella e controllerai tutta la squadra”.

Per Guttmann si concludeva la seconda fase della sua carriera, quella da “apprendista allenatore”, come lo chiamavano ai tempi della prima esperienza all’Hakoah. Ora Guttmann è un allenatore affermato e si parla di lui in tutta Europa, soprattutto per il suo essere perennemente sopra le righe. E qual è la nazione europea eternamente affascinata da personaggi carismatici, discutibili, polemici e antipatici ? Bravi, l’Italia. Ed è proprio da noi che Guttmann verrà a insegnare un calcio nuovo e del tutto sconosciuto, quello della “scuola ungherese”, imbattibile negli anni 50. Béla parte per l’ennesima volta nella sua vita, ma per la prima volta in Italia. C'è qualcosa di più di un contatto con l'As Roma.
 

giovedì 19 settembre 2013

Confessioni di un milanista pentito

Il primo ricordo calcistico risale agli albori degli anni '90. Poco dopo Tangentopoli e poco prima del famoso videomessaggio "L'Italia è il paese che amo" per il Paese; poco dopo aver smesso con i pannolini e cominciato a mangiare cibi solidi, per me. Mio padre - d'ora in avanti, per brevità chiamato "il professore" - mi portò a vedere una partita dell'Ascoli, non ricordo contro chi, ma mi sembra che si vinse tanto a poco. Uscito dallo stadio credevo che la squadra della mia città fosse la Juve, una convinzione nata dal fatto che mio padre fosse - ed è ancora - il gobbo più fazioso e irredento che conosca. Per dire, secondo lui Calciopoli fu un grande complotto ordito da Inter, Telecom e controspionaggio sovietico. Alle ultime elezioni ha votato Grillo.


L'età dell'innocenza finì alle elementari, un mio amico mi disse che tifava Milan e io mi accodai senza starci troppo a pensare. Erano le memorabili stagioni di Tabarez, del Sacchi e del Capello bis: parte destra della classifica, scontri diretti contro il Bari. Ricordo come un mezzo trauma un tremendo 1-6 contro la Juve e quel titolo del Corriere della Sera: "La Juve spacca San Siro in sei". Ricordo i sorrisoni del professore davanti alle mie lacrime. Per reazione lessi il libro "Berlusconi in concert" che il Presidente degli italiani aveva spedito a tutti i suoi sudditi. La sera mi addormentavo sognando un Milan che seppelliva di gol la Juve. L'anno successivo i gobbi vinsero 4-1, con un netto miglioramento rispetto all'ultima volta, pensai.


Poi l'Ascoli stravinse un campionato di serie C e il mio amore per i colori rossoneri cominciò ad affievolirsi, fino a scomparire quasi del tutto, oggi. Posso anche individuare l'esatto momento in cui sbandai verso il Picchio: un Ascoli-Avellino 4-0, giocato di mercoledì sera, con autogol di Portanova dopo pochi minuti. Una certa fede milanista, ad ogni buon conto, la conservo per la Champions League. La notte di Manchester con il rigore di Shevchenko - e il professore che spegne la televisione appena un attimo prima che Maldini alzasse la coppa al cielo -, la disfatta di La Coruna, la "partita perfetta" contro lo United (Kakà-Seedorf-Gilardino, per gradire), la maledetta finale di Istanbul, la vendetta di Atene, il gol di Adebayor che segnò il tramonto di quella squadra leggendaria. Intendiamoci, quando l'Ascoli tornò in serie A e all'esordio beccammo quel Milan, insultai gli undici rossoneri per tutta la partita, esultai come un matto al gol di Cudini, maledissi Sheva per quel tiro rasoterra che pareggiò l'incontro. 

Al ritorno bestemmiai contro la lumaca Adani che inseguì Inzaghi per mezzo San Siro senza riuscire a prenderlo, nell'unica azione solitaria conclusa con un gol della carriera di Super Pippo. Marco Giampaolo - allenatore di quel Picchio che si salvò magnificamente nella stagione di grazia 2005/2006 - rimane un modello di vita e di calcio, ma devo ammettere che il mio cuore è ancora tutto di Carlo Ancelotti. L'albero di Natale e i belli di notte, le partite che non potevi sbagliare e finivano sempre in trionfo. Quando se ne andò via, divenni un antiberlusconiano ancora più convinto di quanto non fossi. E già avevo letto l'intera bibliografia di Travaglio, e pure qualche testo apocrifo. Adesso vedere tal Valter Birsa al posto di Seedorf e Constant al posto di Serginho mi mette tristezza più di un Enrico Letta modello padre dei popoli alla festa dell'Udc, che, allargando le braccia, dice: "Chi è contro il mio governo è contro l'Italia". 


Queste confessioni di un milanista pentito finiscono con un sms, inviato a una ex ragazza dopo aver visto il Milan di Allegri eliminato dal Tottenham con un mesto zero a zero londinese: "Mi manchi come Ancelotti".

sabato 20 luglio 2013

Literaria. "Milan Story". La leggenda rossonera dal 1899 a oggi


Imprescindibile per ogni milanista che non si accontenti di seguire minuto per minuto l’evolversi della trattativa per un dinamico e talentuoso centrocampista nipponico, “Milan Story: La leggenda rossonera dal 1899 a oggi” (Edizioni della Sera pp.191) è il libro perfetto da sfogliare sotto l’ombrellone, per ripassare il conosciuto e esplorare lo sconosciuto delle mille storie che compongono la Storia del più glorioso club italiano. In attesa dell'Honda giusta.



In attesa di capire se nella prossima stagione l’intesa tra Balotelli ed El Shaarawy sarà finalmente efficace, o se Allegri riuscirà a rovinarli entrambi. L’agile struttura a brevi capitoli del libro permette una lettura serena e rilassata, che siate sul pareo in spiaggia, sulle panche di legno di un rifugio montano, o su una panchina del parco in pausa pranzo. E l'autore Sergio Taccone, oltre a collaborare con gli amici di Storie di Calcio, al terzo libro sulla squadra rossonera è certamente uno scrittore che conosce il valore della materia che sta plasmando. In questo Milan Story l’ha fatto con un certosino lavoro di indagine storica, scavando come talpa di marxiana memoria tra trafiletti dei quotidiani degli albori del ventesimo secolo come negli editoriali contemporanei, tra vecchie riviste fuori commercio e contemporanei video di youtube, per riuscire a raccontare come si fosse disputata ieri l’amichevole del 29 giugno 1955: in cui il Milan supera la temibilissima Honved Budapest mentre sugli spalti di San Siro la delegazione del PCI di Sesto San Giovanni tifa compatta e fedele alla linea per i compagni magiari. O la successiva amichevole dei rossoneri a Mosca contro la Dinamo: la prima volta per una squadra italiana al di là della Cortina di Ferro, per la partita che Calcio Illustrato definisce entusiasta come “un inizio di collaborazione tra le due nazioni”.



Il pregio del libro è poi quello di giustapporre le varie piccole storie con un montaggio dialettico degno della scuola sovietica di Eisenstein. E così, senza apparente soluzione di continuità - quando invece la successione dei capitoli rivela a mio parere una precisa e azzeccata scelta narrativa - si passa dalle grandi vittorie alle clamorose sconfitte, dalle storie più note a quelle sconosciute anche alla maggior parte dei tifosi. Manchester e Istanbul, il gol di Capra con l'Inter e quello di Weah col Verona. Le prodezze di Marco Van Basten e quelle di Walter De Vecchi: “’avvocato del diavolo che fece meglio di Perry Mason, vincendo una causa persa”, nelle parole dell’indimenticato Beppe Viola, uno degli ultimi milanesi (sempre che Milano sia mai esistita) cui è dedicato un nostalgico capitolo. E così, via via scorrendo con la lettura, dopo una storica vittoria contro il Grande Torino negli anni Quaranta arriva la altrettanto storica sconfitta con la Cavese “il controesodo dei tifosi ospiti fu memorabile: dodici pullman granturismo, due aerei, tre treni e una carovana sterminata di automobili, camper, e ogni tipo di autoveicolo che scendeva da Milano”. Le pagine omeriche che immortalano le magnifiche gesta del capitano Franco Baresi “la maglia rossonera è stata la divisa della sua esistenza”, precedono di poco quelle relative al misconosciuto Andrea Bonomi, che invece “occupa un posto alla voce capitani e bandiere insieme a colonne del calibro di Liedholm, Rivera, Baresi e Maldini. Superfluo aggiungere altro”.



Storie di campo che hanno segnato l’infanzia di chi vi scrive, ovvero il mitico gol del centravanti britannico Mark Hateley nel derby d’andata della stagione 1984/85. Il gesto tecnico di Attila, il suo stacco poderoso a sovrastare il traditore Collovati sono “un ascensore per il paradiso” che trasuda speranza dopo le due retrocessioni di fila e una lunga e lenta ricostruzione. Sono alternate a storie di vita come quella di Ferdinando Valletti, ex componente della Brigata Garibaldi che nel marzo del 1943 è arrestato dalla sbirraglia fascista dopo aver organizzato uno sciopero davanti ai cancelli dell’Alfa Romeo. Panchinaro rossonero, in pochi mesi si trova deportato a Mauthausen dove è spersonalizzato dal concentrazionismo capitalista fino a diventare un numero: il I57633. Tra i mille altri capitoli, si passa dal racconto surreale delle gesta del tecnico ungherese Bela Guttmann (quello della maledizione del Benfica), uno zemaniano ante litteram che sulla panchina rossonera nella stagione 1954/55 parte alla grande con nove vittorie di fila, ma alle prime difficoltà è esonerato senza motivo apparente alcuno. Fino alla bellissima e inutile prodezza di Roberto Antonelli, soprannominato Dustin per la somiglianza con l’attore, che non evita al Milan la seconda serie B in tre anni e fa esclamare all’avvocato Prisco “dopo la retrocessione a pagamento ecco quella gratis”. Perché un milanista è orgoglioso delle sue retrocessioni quanto dei suoi trionfi: perché noi siamo e resteremo ciasciavit, altro che quei bauscia nerazzurri che hanno il coraggio di presentarsi a San Siro solo quando noi siamo in trasferta…

venerdì 11 gennaio 2013

Io dico NO a Didier Drogba e altre perle che mi costeranno la (già scarsa) credibilità

ma vieni a Bologna che si sta bene.. si mangia bene.. belle donne.. bei negozi..
Premessa: se c'è uno che stravede per Drogba, quello è proprio il sottoscritto.
Punta fantastica, tra le più forti che ho visto.
Tuttavia, 'sta serie di voci che vuole la Juventus interessata all'ivoriano mi lascia un po’ perplesso.
Vi spiego perché.

Da un lato, la Juventus ha evidentemente necessità di un killer sotto porta. Serve un attaccante che capitalizzi l'impressionante mole di occasioni creata dalla squadra di Conte. Vucinic (croce e delizia, alle volte fenomeno indiscutibile, altre volte da prendere a schiaffi), Giovinco e Matri segnano col contagocce. Quagliarella non si capisce bene che fine ha fatto. I centrocampisti.. si segnano, ma certo non possono fare tutto loro là davanti.

Dall'altro, l'ingaggio faraonico, l'età e la Coppa d'Africa qualche perplessità la sollevano.
Senza contare che un minimo per l'inserimento tocca metterlo in conto.
Prendi Drogba, si aggrega al gruppo tra un mese.. dopo deve iniziare a segnare.. insomma, tempo che tutto è a posto, la Juve il Campionato l'ha già vinto e rivinto.
Rimane buono il discorso Champions League, d'accordo.
Ma per quanto riguarda l'Europa, sono convinto che alla Juve - a prescindere - manchi ancora qualcosa per poter fregare Real/United, Bayern o Barca o chi per loro sul doppio scontro.

In buona sintesi, se fossi Marotta lascerei Drogba dove sta. Aspetterei comodo comodo giugno e porterei a casa Llorente.
Nel frattempo, punterei tutto su un impianto di gioco che è collaudatissimo e perfetto per le aspettative stagionali. Magari richiamando Immobile.
Il top rimarrebbe uno scambio Pazzini-Matri.. Con il primo che riesce a completare la collezione delle strisciate in tempo record.


* * *

Premessa: non sono mai stato un grande appassionato di Sneijder.
Tuttavia, la vicenda dell'olandese all'Inter fa ridere.
Sneijder a Stramaccioni serve eccome. Svendere Sneijder al Galatasaray è da mani nei capelli.
Per poi schierare chi (ad esempio a Udine)? Jonathan e Duncan?
E un Lodi o uno Schelotto che ti cambiano?
Ma per favore..

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Sarà mica che Galliani con Saponara ha fatto il colpo?
Sarà mica che la Roma si regala Caceres per davvero..
La cessione di Calaiò al Napoli è una tegola per la mia stagione al Fantacalcio. Da titolare fisso a riserva di Cavani.. #mòschieroAmauri

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brot avaraz...

Guaraldi e la dirigenza del Bologna che stanno facendo?
Ci manca solo che partano Portanova e Gabbiadini e siamo a posto.
Gli altri si rinforzano e il Bologna cede.
Come direbbe il Civ.. "Eviva!"..


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genio assoluto

Quindi chi vince a Masterchef?
Maurizio è il fenomeno che dicono?