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sabato 29 marzo 2014

59, Viale Tiziano


So you sometimes go out in the afternoon
Spend an hour with your lover in his bedroom 

hear old women rolling trolleys down the road
Back to Lyndhurst Grove
Lyndhurst Grove



Quando alzavo la testa dalla tua schiena, dopo esserti venuto dentro, i miei occhi si mettevano a fuoco sul poster di Francesco Totti attaccato con le puntine alla parete sopra il cuscino. Aveva i calzettoni abbassati a metà del polpaccio, i muscoli delle cosce tesi (come i miei, mi veniva da pensare), la maglietta aderente al corpo asciutto, la posa sprezzante, lo sguardo rivolto verso il compagno a cui aveva lanciato il pallone. I tuoi gemiti, poco prima di afflosciarti sul copriletto, mi riportavano alla realtà di una stanza, e di una casa, sconosciuta.

Sul comodino c'era la foto di una donna che non eri tu. Sorridente, minuta, con i capelli biondi corti ma mossi dal vento e gli occhiali da sole, come a voler velare la malinconia dell'osservatore, teneva in braccio un bambino con una salopette. Avrà avuto quattro o cinque anni. Così diversa da te, con il tuo viso lungo, spigoloso, le tue gambe fredde, la tua ombrosità, i tuoi capelli del colore del legno. Non ho mai capito come avesse fatto tuo marito, l'Architetto, a riparare tra le tue braccia dopo quel lutto così improvviso. La ferita ancora aperta, la frattura tra due vite, la leucemia, il romanzo postumo, quel bambino così piccolo da crescere. Due donne così diverse. Eppure.

Mentre sistemavi la stanza del bambino che non sei mai riuscita a chiamare tuo figlio andavo in cucina a prendermi da bere. Fare l'amore in quella casa mi disidratava e camminare a piedi nudi sul parquet era un modo per rinfrescarmi. Anche sul frigorifero c'era una fotografia dell'ex moglie. Mentre bevevo a lunghe sorsate l'acqua gelida che scorreva a fiotti dal rubinetto appoggiavo la fronte sudata al vetro della finestra della cucina. La solita immagine di cinque o sei tifosi che tornavano verso la fermata del tram camminando sui binari deserti, con le sciarpe intorno al collo, mi passava davanti. La partita era finita, anche io me ne sarei dovuto andare. Giusto il tempo di rivestirmi e di vedere i risultati della giornata sul televisore del salotto, che lasciavamo acceso con Diretta Gol per essere sicuri di non addormentarci a partite finite, e di chiederti chi aveva fatto quella macchia chiara sul divano grigio. Non l'abbiamo ancora scoperto, è successo qualche sera fa, durante la festa di Giorgio. Ti sei divertita? Sì, voglio dire, c'erano i nostri amici, hanno portato i bambini, loro hanno giocato in terrazzo mentre noi siamo stati qui a mangiare e a parlare di lavoro, libri, musica, arte e sesso. Arte e sesso? Sì, perchè no? E di calcio? No, di calcio no, lo sai che a Giorgio non piace, che quando va allo stadio con il figlio lo fa solo per lui. Dai, adesso vai che potrebbero tornare da un momento all'altro. Dimmi solo una cosa, com'eri vestita? Lei andò di là, e tornò appoggiandosi un vestito nero sul corpo ancora seminudo. Restammo in silenzio e pensai che esistono silenzi fatti solo per noi.

In quella casa, a volte la domenica pomeriggio, a volte il sabato sera, o comunque inseguendo i cervellotici orari della Lega Calcio, ho vissuto i migliori anni recenti della storia della Roma, quelli spallettiani. I gol più belli, le partite più sofferte, le emozioni più intense sono tutti ricordi legati a doppio filo con il sesso, le parole, l'intimità di quell'appartamento luminoso e minimalista, con le maschere africane e le scatole birmane in salotto. Le prime volte che ci entravo, nello stesso momento in cui le squadre erano sulle scale dell'Olimpico pronte per entrare in campo, sentivo lo stesso nervosismo dei giocatori, lo stesso mistero per quello che sarebbe accaduto nei successivi novanta minuti, la stessa ansia da prestazione. Mi sentivo come un turista che affitta una macchina in un paese straniero e inconsciamente si avventura in zone di guerra e non torna mai più indietro, almeno non con quella macchina. Poi, pian piano, seguendola nelle sue fantasie, nelle sue dolcezze, mi sono sciolto; con i nostri quasi vent'anni di differenza, lei è stata per me come un allenatore. Ho deciso di seguirla in tutti i suoi esperimenti tattici, cambiando varie volte la mia posizione in campo, memorizzando schemi e accettando anche delle dolorose panchine. Ricordo una sera - si giocava Roma-Palermo, e la Roma aveva appena segnato un gol da calcio d'angolo - in cui mi sostituì molto prima del finale. Di colpo le era presa un'inquietudine fortissima. Pensavo che non mi volesse più vedere, che mi avrebbe venduto o perlomeno dato in prestito a un'altra squadra. Invece era tutto il contrario: lei voleva fare coppia con me, come Totti e Mancini, come Romario e Bebeto, come Elber e Bobic. Tornando verso la macchina al Villaggio Olimpico, mischiandomi tra i pochi ignari passanti, le scrissi che anche io ero molto triste di vederla così poco e di non poter restare. Per un mese non ci vedemmo, era come se fossi stato squalificato. Poi però, un pomeriggio che la Roma dominava la Fiorentina, tutto tornò come prima, e iniziammo a frequentarci anche durante la settimana, approfittando del fortunato cammino europeo della squadra di Spalletti.


Giorgio lo amava, come si può amare una persona che non ti tradirà mai, che non le faceva mancare nulla, che le dava tutto quello che desiderava - almeno, tutto quello che poteva comprare. E allora perchè hai scelto me?, le chiedevo ogni volta che, sdraiati sul letto, le gambe arrotolate, ascoltavamo in lontananza i boati dell'Olimpico che ci informavano che De Rossi aveva segnato o che Panucci era stato ingiustamente espulso. Non dire che ho scelto tutto questo, mi rispondeva; vuol dire dare alla parola scegliere un senso veramente largo. Allora tornavo ad essere l'amante muto che ero sempre stato, fissavo le pareti della stanza di quel ragazzino che non avevo mai visto, se non in foto, e vivevo con malinconia quegli ultimi spezzoni di partita in cui si sa che non succede più nulla, il risultato è segnato, è inutile continuare ad attaccare. Perrotta veniva sostituito, il centrocampo infoltito, giocare in dieci non è mai semplice ed è meglio coprirsi. Testa contro testa, ascoltavamo il rumore dei passi dei tifosi sul marciapiede, fino alle cinque, quando bevevo un bicchiere d'acqua, appoggiavo la fronte al vetro della finestra della cucina, mi infilavo i pantaloni, le davo un bacio sulla bocca e me ne andavo via, come un tifoso qualsiasi.

Dopo l'estate del 2009 tutto cambiò. Quando la andai a trovare per la prima volta - era un Roma-Juve, Diego fece il fenomeno - capii che qualcosa era cambiato. Non so se in lei, o in me. Facemmo l'amore tre o quattro volte, e continuammo anche durante le interviste del dopo-partita. Giorgio e il figlio dopo lo stadio non sarebbero tornati a casa, perchè andavano a trovare i nonni. La notizia delle dimissioni di Spalletti mi colse all'improvviso, mentre lei mi stava facendo un pompino. Venni di colpo, fu "una scossa che mi svuotò la testa come un cucchiaio che raschia l'interno di un uovo alla coque". Il tecnico di Certaldo parlava ai microfoni di Sky dei problemi dello spogliatoio e io sprofondavo sul divano ancora macchiato. Non ricordo cosa dissi, ma ricordo che lei mi chiese se quelle parole significavano che era tutto finito. Non ho mai saputo se si riferisse alle mie o a quelle di Spalletti, ma risposi di sì, credo di sì, certo però è un peccato. Spalletti si era dimesso, e io con lui.

Oggi, quando ripenso a quei giorni, quei giorni felici in cui ho amato e sono stato amato, in cui mi sono illuso - ci siamo illusi - che un giorno avremmo anche potuto vivere insieme, non solo durante le partite della Roma ma anche nel resto della settimana, un sogno che sembrava possibile ed invece era inverosimile come vincere all'Old Trafford con Vucinic trequartista, non vedo le immagini delle partite, non vedo la stanza con il poster di Totti, non vedo neanche lei, ma vedo quei cinque o sei tifosi che tornano verso la fermata del tram camminando sui binari deserti, con le sciarpe nelle tasche.