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sabato 13 luglio 2013

Tre volte contro

In maniera direi del tutto sorprendente questo esperimento di calcio altro continua non solo a sopravvivere (ad ottobre saranno quattro anni e stiamo già caricando i kalashnikov per festeggiare insieme come si deve) ma a raccogliere sempre più amici, giunti ormai a un numero garibaldino; e tutto questo senza che la logica di LB sia mai cambiata di una virgola. Proprio per questo motivo, invece di godermi il lieto momento, preferisco come al solito condividere in maniera polemica (l'unica che conosco) tre spunti di riflessione sul mondo del calcio, su tre argomenti che mi stanno a cuore.

Contro un certo modo di intendere il calcio (almeno a Roma)
Non parlerò della squadra, della società, degli americani, di Totti, del mercato etc. Non verserò, insomma, le mie solite lacrime giallorosse (seppure ne avrei titolo: l'anno prossimo la mia vita sarà in perfetta simmetria, la prima metà passata senza abbonamento, la seconda con l'abbonamento). Volevo lamentarmi - in pubblico e non solo in privato con Nesat, che sono anni che rimpiange di non essere nato a Sondrio - di un certo modo di intendere il calcio, almeno a Roma. Il primo episodio che mi ha fatto rabbrividire è quello dell'accoglienza riservata a Trigoria a Miralem Pjanić da alcuni tifosi, che il giorno del raduno l'hanno pesantemente insultato e invitato ad andarsene. La colpa di Pjanić è di aver rilasciato un'intervista a un giornale bosniaco, durante un ritiro con la sua nazionale a stagione finita, nella quale, a domanda sul derby di coppa Italia [tra parentesi, lo dico per chi non vive nella capitale, una partita che non ha lasciato strascichi, di cui non si ricorda più nessuno...], dopo aver risposto che l'aveva naturalmente amareggiato assai perdere in quel modo contro la Lazio, aggiungeva che, tuttavia, almeno c'era stato un dettaglio positivo, e cioè che era felice per il suo amico e compagno di nazionale Senad Lulić. Lo dico apertis verbis: sono proprio queste le sfumature di umanità che mi piacciono del calcio, che me lo rendono amabile. Perchè questa è la vita, piena di amici con i quali sempre ci saranno delle frizioni su questo o quell'argomento, e con cui si rimane comunque amici. E invece, nel caldo di Trigoria, questa postilla finale è diventata un boomerang per Pjanić. Cosa avrebbe dovuto fare Pjanić nel ritiro della nazionale bosniaca: ignorare Lulić? Dargli una capocciata? Sputargli nel piatto? L'elemento più grottesco è che stiamo parlando di uno dei tre giocatori più forti della rosa, e che parte dei tifosi (non solo quelli del raduno a Trigoria, ma tanti nelle radio) vorrebbero mandar via, in puro tafazzismo, perchè ormai è "un laziale". Ecco come ci si fa del male da soli, ecco spiegato perchè a Roma non si vince mai niente. Non esiste spirito critico, ma solo bianco e nero, anzi, giallo e rosso. Oggi sei un grande, domani sei un infame, anzi un laziale. E vicecersa. Peraltro, quello di "essere laziale" ormai è il mantra dell'insulto giallorosso (ad ascoltare certe frequenze radiofoniche, a Trigoria hanno tutti l'aquilotto tatuato sul cuore). E passo al secondo episodio che mi ha lasciato perplesso. Un paio di giorni fa presentano la nuova maglia della Roma per la prossima stagione; taglio corto sulla sua storia travagliata, e mi limito al giudizio estetico: per i miei gusti, è orribile, sembra una maglia finta da bancarella vicino allo stadio, così come orribile e farlocco è, peraltro, il nuovo logo. Suppongo che molti tifosi abbiano avuto la mia stessa reazione e abbiano legittimamente manifestato il loro malumore su twitter. Senonchè, ad azzerare qualsiasi tentativo di civile dissenso, arriva il tweet risolutorio di uno di questi, come chiamarli, maître à penser della rete che ora vanno tanto di moda, questi auto-proclamatisi alfieri della romanità e del romanismo, pura buzzonaglia di intellighenzia 2.0, che riadatta il massimalismo tipico della sinistra de' cultura che ha sempre il culo parato in chiave radio romana: "Quelli a cui non piace la maglia. È che la vorrebbero biancoceleste". Pam! Sentenza! Chi ha qualcosa da ridire sulla maglia diventa subito, ma è ovvio, "un laziale"! Fine delle discussioni, e delle trasmissioni. Ma non su questo blog, perchè non è questo il nostro modo di intendere il calcio, più aperti di noi c'è solo Solange.

Contro un certo modo commerciale di intendere il calcio
Non sarà sfuggito a chi è arrivato fin qui che c'è un altro grande problema legato al calcio, e non solo a Roma, e cioè che, come si dice qui, c'è un sacco di gente che, col calcio, "ce magna", e quindi, per come la vedo io, alle volte perde di credibilità. Anche quando "non ce magna", è immischiata in giri di amici, colleghi, redazioni, salotti, palchi, uffici, editori, radio, conventicole, festival e così via dove, in un modo o nell'altro, il calcio è un prodotto, uno strumento, un bene da cui ricavare una rendita. Questo è il lato basso; quello alto, naturalmente, sono le televisioni a pagamento, e tutti quegli intermediari che offrono questo o quel servizio legato al pallone. Credo invece che noi - e quando dico noi, mi permetto di includere tante persone che in questi anni (o già da prima di noi) hanno aperto blog e siti bellissimi, molti dei quali sono elencati nella colonna di destra sotto il titolo "Rivalità", o semplicemente hanno scritto per noi o per altri, o hanno organizzato serate, etc. - dobbiamo continuare a portare avanti, con candore, un discorso legato al calcio di tipo non mercantilistico, ma puramente relazionale. Non siamo qui per "magnarci", ma per parlare, per conoscere e conoscerci, per prendercela comoda, per creare relazioni umane. Per noi, e prendo in prestito alcune osservazioni di Nicolas Bourriaud sull'arte, il calcio, al di là del suo carattere commerciale o del suo valore semantico, rappresenta un interstizio sociale:
"Il termine interstizio fu utilizzato da Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell'economia capitalista, poichè sottratte alla legge del profitto: baratti, vendite in perdita, produzioni autarchiche. L'interstizio è uno spazio di relazioni uname che, pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso".
Non riesco a immaginare una definizione migliore di quello che, per me, è lo spirito comunitaristico, dilettantistico e disinteressato di questo e di tanti altri blog, di questo modo altro di intendere il calcio. Ma dobbiamo renderci conto che siamo e saremo sempre più in via non dico di estinzione, ma quanto meno di marginalizzazione. Il calcio che sognavamo noi da bambini oggi è solo amarcord di un'identità perduta, figurina in un cassetto, memoria di un supertele, ricordo di una maglia in cotone ispido con uno sponsor discreto, eredità di un'azienda di famiglia. Il calcio, oggi, è unidirezionale: da una parte, il tifoso con il portafoglio, o con paypal, rigorosamente nel suo salotto, collegato a quei cazzo di telefonini, isolato dal mondo e dagli altri suoi simili, muto, addomesticato; dall'altra, un esercito di soggetti, a partire dalla sua squadra del cuore, pronti a bombardarlo di pubblicità pur di vendergli qualcosa di cui per tanti anni aveva fatto bellamente a meno. Io la penso, di nuovo, come Bourriaud:
"Ciò che non può essere commercializzato è destinato a sparire. Fra poco le relazioni interpersonali non si potranno tenere al di fuori di questi spazi mercantili: eccoci costretti a discutere intorno a una bibita debitamente tariffata, forma simbolica dei rapporti umani contemporanei. Volete del calore condiviso, del benessere a due? Allora gustate il nostro caffè...Lo spazio delle relazioni correnti è quello più duramente colpito dalla reificazione generale. Simboleggiato da merci o rimpiazzato da esse, segnalato da logo, il campo delle relazioni umane deve assumere forme estreme o clandestine se vuol sfuggire all'impero del prevedibile".
Eccoci qua, noi e molti altri. Non vendiamo nulla, vogliamo solo fare due chiacchiere.

Contro un certo culto di chi gioca al calcio
Su questo sarò brevissimo. Il binomio torneo internazionale (in questo caso, la Confederations)-calciomercato è il trionfo dell'individualismo del calciatore, che diventa il protagonista assoluto dell'inchiostro giornalistico e del sogno bagnato del tifoso. Le tv, i giornali, le società stesse hanno bisogno di personaggi patinati per tirare a campare, di creare idoli, plasmare miti, forgiare culti. Queste sono state le settimane di Balotelli, Neymar, Cavani, prima lo erano state dei vari Messi, Ronaldo, Ibra, e via dicendo. Ma a me del loro lato personaggistico interessa meno di zero; a me interessa la mia squadra, e, solo in seconda battuta, il lato umano di questi miei coetanei. Che a guardarli bene, tolta la loro straordinaria perizia con il pallone tra i piedi, che cosa sono questi ragazzi, se non dei miei coetanei con cui non uscirei neanche pagato a mangiarmi una pizza perchè non saprei di cosa parlare? A me fa pena questa loro divinizzazione, mi fa pena che siano costretti a mostrarsi nudi - in tutti i sensi - di fronte al mondo per ragioni di sponsor, a essere dati in pasto al pubblico pagante e vociante, a sfoggiare piercing e tagli di capelli, a passare le vacanza a Formentera e in Sardegna, a giocare alla playstation, a mangiare il pesce in ristoranti costosi. Non è questa la vita che si meritano. Non sono loro stessi. E' tutta immagine. Questi cosiddetti top-player, queste stelle del calcio, questi ragazzi fortunati, io me li immagino invece soli e squallidi come gli attori porno, schiacciati dalle loro responsabilità come metaforici (a volte neanche metaforici) piselli di trenta centimetri, a volte così pesanti da non poterli neanche alzare. Europei, meticci, figli di banlieu, sudamericani, africani, adottati, con le creste, indios, ex-nani, impomatati, alti, bassi, grossi, mingherlini, un circo di freaks accomunati dall'unica ricchezza di possedere quel pisello gigante, nel loro caso la dote sopraffina, concessagli chissà perchè dalla natura, di saper correre con il pallone attaccato al piede e di saperlo scagliare con violenza dove il portiere non può arrivare. Ma la tristezza dei piselli è la stessa dei sorrisi delle attrici sulle riviste pornografiche, è la tristezza più grande che ci sia, è la tristezza, per dirla alla Bolaño, di quei piselli monumentali nella vastità e desolazione di un continente. Eccoli i nostri beniamini, i nostri miti, sul loro vero set: attori nudi dalla vita in giù, con i piselli giganti appesi e svuotati, e sullo sfondo il paesaggio del campo che si apre senza fine. Una sensazione di grandezza inutile, di ragazzi giovani, forti, belli e senza scrupolo destinati al sacrificio, a scomparire in un battito di ciglia nella vastità del caos.