Il nostro amico Andrea Romano, che su queste pagine ci ha ricordato i suoi anni a Malaga, e che su pagine di carta ben più prestigiose ha fatto una gustosa carrellata dei matti del calcio ("Manicomio Football Club"), oltre a contribuire al mitico "Memorie dell'Europa calcistica" con il pregevole racconto scozzese tanto elogiato da Antinelli, torna - peraltro direi con gli stessi toni letterari foschi del racconto da ultimo citato - in libreria con un romanzo biografico, o una biografia romanzata, insomma con un lungo racconto, su Eric Cantona, The King per gli amici ("Cantona. The King", Giulio Perrone Editore, collana Fuori Classe, 2016). In attesa che si cimenti con la sua prova più ardita (gira voce che stia progettando un romanzo distopico in cui Alessandro Rinaldi non regala il pallone a Owen contro il Liverpool, la Roma vince quella Coppa Uefa e Rinaldi, dopo anni di gloria, sfida Marchini al ballottaggio come sindaco di Roma), buona lettura con il suo nuovo libro, di cui ci pregiamo di offrire questa bella anticipazione.
***
Londra, mercoledì 25
gennaio 1995.
Tu adesso torni indietro
e gli cancelli quell’espressione da demente dalla faccia.
Quanto
è vero cristo iddio. Sì, tu ora esci da questa stanza e gli sviti quella sua
inutile testa di cazzo.
Un
pugno dopo l’altro.
Fino
a quando non senti le sue cartilagini sbriciolarsi sotto le tue nocche.
Un
dente dopo l’altro.
Fino
a quando le sue labbra non la smettono di pronunciare quel nome.
Eléonore.
Non
un nome qualsiasi. Il nome di tua madre. Ossa delle tue ossa. Carne della tua
carne.
Chiudi
gli occhi ma riesci ancora a vederli. Sono ovunque. Sotto il tuo naso e davanti
alle tue retine. Sorrisi affilati innestati su volti anonimi. Non smettono un
attimo di guardarti. Fisso. I loro occhi dentro ai tuoi occhi. Fino a quando
non scoppiano in una risata sguaiata. Ed è inutile che provi a proteggerti le
orecchie con i palmi delle mani. Perché tanto puoi sentirle riecheggiare
dappertutto.
Dietro a ogni angolo.
Aggrappate a ogni parete. Davanti a ogni spigolo.
Bocche
velenose che ti ripetono che questa non è più casa tua. E non lo sarà mai più.
Perché sei finito. Perché per te, qui, non è rimasto niente. Solo polvere e
oblio e sofferenza e dannazione.
Tu, il francese insolente
che sognava di conquistare la perfida Albione.
Provi
a girare la maniglia ma le tue dita mancano la presa. Falangi impazzite che si
rifiutano di obbedire ai tuoi ordini. Arti ammutinati che pensano sul serio di
potersi ancora salvare.
Appoggi
la schiena alla porta e ti guardi intorno.
Muri anneriti. Pavimenti
scoloriti. Legno scheggiato. Panche consumate.
Giri
la testa alla ricerca di una prova, di un disperato appiglio che ti faccia
capire che questo non è altro che un delirio. Trovi solo buio. Buio che ti
opprime la gola e ti sgonfia i muscoli. Buio che si mette in marcia verso di
te. Lentamente. Centimetro dopo centimetro dopo centimetro.
Inspiri. Espiri. Inspiri.
Espiri. Inspiri.
Vorresti
metterti in salvo ma non riesci a schiodarti da lì.
Le gambe pesanti. La
testa che frizza. Gli occhi che bruciano.
Il
piede destro davanti al sinistro. E ti ritrovi solo e impaurito.
Il
piede sinistro davanti al destro. E capisci che è tutto finito.
Niente più cori. Niente
più applausi. Niente più preghiere. Niente di niente.
Stai
per metterti ad urlare quando le senti addosso. Sulle tue braccia e sulla tua
schiena. Intorno alle spalle e appese alla maglia. Sono fredde, umide,
appiccicose. Mani. Le mani di Norman Davies. Gira la chiave nella toppa e ti urla
contro qualcosa. E lo fa con la rabbia impastata a riverenza. Grida che ti devi
calmare, il povero Norman. Strilla che se vuoi davvero uscire da questo
spogliatoio del cazzo devi prima passare sul suo corpo del cazzo e poi buttare giù
quella porta del cazzo.
Come
se tu non fossi disposto a farlo sul serio. Come se tu prendessi davvero ordini
da un magazziniere.
Espiri. Inspiri. Espiri.
Inspiri. Espiri.
Ti
sfili la maglia e la lanci il più lontano possibile. Pensi a loro. Lì fuori.
Senza di te. Ti siedi con il cuore che rimbomba al centro del tuo petto. Ancora
una manciata di minuti e sarà tutto finito. Per sempre. Perché dopo non ci saranno
più partite da giocare né gol da segnare. Non ci saranno più stadi da
ammutolire né colletti da alzare.
Norman
si avvicina e ti passa un bicchiere di tè. L’unico modo in cui i pidocchiosi
sudditi di Sua Maestà sanno risolvere i problemi.
Un
sorso.
Due
sorsi.
Tre
sorsi.
E
senti il calore che scende dritto giù nella tua gola.
Quattro
sorsi.
Cinque
sorsi.
Sei
sorsi.
E
questa notte non sembra poi così fredda.
Inspiri. Espiri. Inspiri.
Espiri. Inspiri.
Ti
togli i pantaloncini, le mutande, i calzettoni. Lasci cadere tutto sul
pavimento, piano. Poi guardi i tuoi piedi. Con i cerotti che avvolgono le dita
e le unghie deformate dalle botte. Ti fanno male. Ma è un dolore che non hai mai
sentito in vita tua.
Dolore di testa. Dolore
di sangue. Dolore di ossa.
Strofini
le piante sulle mattonelle fredde e sbeccate. E mentre senti la pelle
appiccicarsi al pavimento, ecco che un brivido si mette in marcia lungo la tua
schiena.
Il tuo futuro. Un futuro molto più nuvoloso di quello che eri abituato a
sognare. Nessun futuro.
Giri
le spalle a Norman e spalanchi l’acqua calda. Provi a lavare via dalla tua
pelle le ultime tracce di loro. Provi a gridare fuori dal tuo corpo le ultime
scorie di rabbia che ancora ti legano a loro.
L’acqua
bollente si infrange contro i tuoi capelli, controi tuoi zigomi contro il tuo
naso. Scioglie lo sporco che ti si è incollato addosso e lo trascina giù nello
scarico.
Goccia.
Dopo
goccia.
Dopo
goccia.
Chiudi
gli occhi mentre sotto il tuo naso sfilano gli ultimi mesi della tua vita.
Tu felice. Tu sicuro di
te stesso. Tu invincibile.
Apri
gli occhi mentre sotto il tuo naso sfilano crudeli gli ultimi minuti della tua
vita.
Tu ferito. Tu reietto. Tu
distrutto.
Chiudi
la manopola e i tuoi denti iniziano a sbattere l’uno contro l’altro. Hai
freddo. E sei spaventato. Ti accorgi che stai tremando. Anche se non la smetti
di ripetere che tutto si sistemerà, che ti perdoneranno. Perché devono farlo. Perché loro non hanno altro dio all’infuori di te.
Tu
non hai paura.
Tu
non hai paura.
Tu
non hai paura.
E
invece tu hai paura.
Fottutamente.
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