Innanzitutto, la squadra: FC Sion 1909. Il faro calcistico
del Vallese, cantone svizzero al confine con l’Italia. Nel bel mezzo delle
Alpi, dove risulta difficile anche solo reperire un campo d’erba totalmente
orizzontale. Fortunatamente l’amore per il calcio non si ferma ai valichi
alpini e non si scoraggia di fronte alla neve. Questa è una delle tante lezioni
che ho appreso dalla storia del Sion. Una storia che parla di passione e successi,
ma anche di delusione e consapevolezza. Che traccia una parabola, parte dalle
retrovie di un campionato trascurabile e arriva fino in Europa, per poi tornare
giù. Un biglietto di andata e ritorno purtroppo, ma il piccolo grande Sion
riuscì ad arrivare in alto. E nessuno ci avrebbe mai scommesso.
Chi, come me, è nato nei primi anni Ottanta, ha visto il
club vallesano trasformarsi. Dalla mezza classifica alla vittoria del
campionato, dalla lotta per evitare la retrocessione alla coppa più prestigiosa.
Sì, la Champions League, la coppa riservata ai grandi. Magari non proprio la
finale, ma i turni preliminari, quelli sì. Non più trasferte a San Gallo, basta
derby col Losanna. Dopo le prime vittorie in campionato, nella mia testa di
tifoso adolescente c’era spazio solo per la musichetta che apre le partite a
metà settimana. Quella che bisognava cantare in falsetto, che sembrava
riservata solo a Madrid, Milano, Monaco e poche altre città. Nelle mie velleità
di ultras, già sentivo il boato delle bombe carta, già speravo di guardare un’intera
partita attraverso la nebbia fitta dei fumogeni.
Fino a quando il destino del Sion non si incrociò con
quello del Galatasaray.
Era il 1997, il Vallese contava 250 mila abitanti, lo
Stadio di Tourbillon conteneva 20 mila tifosi e in campo non scendevano undici
giocatori qualsiasi, ma il Sion degli anni Novanta, pieno age d’or. In quegli anni sulle pagine sportive del Nouvelliste, il quotidiano cantonale più
diffuso, c’era spazio solo per due argomenti: d’inverno, Tomba la Bomba, il resto del tempo, l’FC Sion.
Durante la breve estate che precedette l’inizio della stagione 1997/1998, nei
bistrot vallesani non si parlava certo di obiettivo-salvezza, ma ci si riempiva
la bocca di paroloni come “doublet” e “Ligue des Champions”, pronunciato
rigorosamente alla francese.
Il presidente del Sion, Christian Costantin, era un folcloristico self-made man locale. Aveva acquistato il club nel 1992 e il suo arrivo ebbe più o meno l’effetto della presidenza Berlusconi per il Milan: una pioggia di titoli nazionali e qualificazioni europee. Costantin faceva sognare, sfrecciava tra Sion e Martigny con la sua Ferrari e quasi ci si aspettava che lanciasse mazzette di franchi svizzeri dal finestrino. Ma, grazie al cielo, il presidente i soldi li usava in un altro modo, sguinzagliando talent scout in giro per l’Europa, contattando procuratori dalla dubbia fama, annusando il sottobosco del calcio mercato franco-afro-brasiliano.
Si presentava allo stadio in maniche di camicia, con il
golfino sulle spalle, ai tempi in cui Marchionne stava ancora studiando in
Canada. Profetizzava vittorie, litigava coi giornalisti ed esonerava allenatori
con una regolarità folle. Il tutto per creare un dream team che esisteva solo nella sua testa, un “Olympique des Alpes” con un budget che
era un ventesimo di quello del Cavaliere o dell’Avvocato. Ma i suoi erano pur
sempre franchi svizzeri, valuta attraente per definizione, e alla fine venne
fuori una squadra niente male. Un caleidoscopio di nazionalità e stili calcistici
apparentemente incompatibili, ma con una solida base proveniente dal vivaio
vallesano. E i risultati parlavano chiaro.
Tutti dovevano iniziare a capire che il Sion poteva
costituire un’eccezione. In terra elvetica il calcio, giocato e non, era
fortemente legato alle grandi città, dove, oltre ad esserci un maggior numero
di campi pianeggianti, era anche più semplice trovare imprenditori disposti a
finanziare i club. La lega nazionale, nonostante la neutrale denominazione
bilingue Ligue Nationale/Nationalliga, era poi praticamente monopolizzata dagli
svizzeri tedeschi, che si imponevano arrogantemente con squadre dai nomi
improbabili tipo Young Boys e Grasshopper. Se si escludevano i successi del
Lugano nell’entre-deux-guerres, a farla
da padrone erano sempre state Basilea e Zurigo. E proprio Zurigo vantava
addirittura due club nella massima serie, caso più unico che raro nella storia
del calcio rossocrociato. La Svizzera romanda (quella francese per intenderci)
rincorreva, per un periodo con il Servette di Ginevra, poi con il Neuchâtel
Xamax. Figurarsi se c’era spazio per un paesone come Sion. I vallesani, si
pensava, erano grandi scalatori, ottimi sciatori, buoni per fare la festa a
suon di raclette e vino bianco. Meglio che il pallone lo lasciassero stare.
Così si pensava. Ma nessuno aveva fatto i conti con un presidente ambizioso e
una tifoseria parecchio rumorosa.
Io, ragazzo italo-svizzero, sperimentavo un delirio
calcistico lombardo-vallesano. Vivevo a Milano durante l’anno e mi recavo con
una certa costanza a San Siro. Pregavo con dedizione affinché la trinità
olandese, che si era sfaldata come la caviglia di Van Basten, potesse un giorno
tornare e durare in eterno. Quando gli studi liceali mi tenevano lontano dal
Meazza, ero comunque immerso nell’inferno rossonero e accendevo la radio,
aspettando di leggere la Gazzetta del lunedì. In Italia si respirava calcio,
anche solo aprendo la finestra di casa.
L’estate, però, la Serie A chiudeva i battenti per almeno
due mesi. Mentre ai miei amici milanesi rimaneva l’onanismo da calciomercato o
le inutili notizie filtrate dai ritiri, lo stato di salute di qualche campione
o le scappatelle di qualche giocatore “difficile”, per me si apriva il campionato svizzero. Nella seconda metà di luglio,
infatti, i club elvetici scendevano di nuovo in campo, ed io ero in curva ad
aspettarli. Adoravo andare a Tourbillon, mi ci fiondavo non appena potevo.
Durante le lunghe vacanze estive soprattutto, ma anche a Pasqua e ogni volta
che ci fosse un ponte a scuola. Perché lo stadio del Sion non era un
mega-impianto simil-sovietico, come quelli che punteggiavano la Penisola dopo
Italia ‘90, ma era un luogo dello spirito. Tourbillon è il nome del castello
che sovrasta i Gradins nord, la curva
dei tifosi biancorossi. Da sempre identificato con la città di Sion, il nome
del castello è diventato sinonimo di calcio in tutto il Vallese. Il nome
completo è Stade de Tourbillon, per questo non lo si nomina mai con l’articolo
davanti, ma sempre e semplicemente Tourbillon. Per me era anche meglio di San
Siro, più caldo e accogliente. Al Meazza ero un numero sul biglietto, a Sion mi
regalavano i biglietti. A Milano cercavo il settore che mi era stato assegnato,
a Tourbillon c’era libertà di movimento. Certo, da una parte c’era il Milan di
Capello e dall’altra il Sion di Roberto Assis de Moreira, il fratello sfigato
di un allora sconosciuto Ronaldinho. A San Siro si festeggiavano successi
intercontinentali, mentre i biancorossi al massimo portavano a casa un
sedicesimo di Coppa UEFA, dopo una storica vittoria di misura contro l’Olympique
di Marsiglia. Ma tutto ciò non mi impediva di esultare alla stessa maniera sia
davanti ai tre scudetti consecutivi del Milan, che alle tre Coppe di Svizzera
del Sion. La squadra vallesana, infatti, dopo un primo scudetto nel 1992,
riuscì nell’impresa di alzare per tre volte di fila la coppa nazionale a
partire dal 1995, concedendosi una doppietta campionato-coppa nel 1997.
Ecco dunque il vertice della parabola. Estate 1997, 13
agosto per l’esattezza. Mentre tutti i miei amici in Italia stavano decidendo a
quale falò imbucarsi a Ferragosto, io pensavo solo al Sion, al secondo turno
preliminare di Champions. Di fronte c’era un avversario mostruoso: i turchi del
Galatasaray. Nel primo turno c’era stata la vittoria schiacciante contro la
squadra più titolata del Lussemburgo, la Jeunesse Esch. Praticamente una
partitella contro la Primavera, un allenamento. Coi turchi però la storia si
complicava parecchio. Non che l’Europa vera non la conoscessimo già, l’anno
prima avevamo giocato contro il Liverpool negli ottavi di Coppa delle Coppe. In
quel caso più che il prestigio della squadra si temeva il fattore psicologico
di dover ospitare una tifoseria da incubo. Ugualmente, non credo occorra
dilungarsi sulle perplessità che uno svizzero medio può esprimere verso un
Paese con la mezzaluna sulla bandiera, figurarsi verso qualche migliaio di
entusiasti rappresentanti in trasferta da quello stesso Paese. In molti erano
assai stupiti dal fatto che la squadra di Istanbul gareggiasse in una
competizione europea e, come sempre in Svizzera, si cominciò a disquisire con
estrema serietà sulla collocazione geografica della penisola anatolica.
Nella settimana che precedette la partita si formarono, abbastanza banalmente, due schieramenti: gli ottimisti e i pessimisti. I primi, sicuri della vittoria, si concentravano sui giocatori. Tra le stelle del Galatasaray vi erano allora due rumeni, entrambi di nome Gheorghe: Hagi e Popescu. Elementi chiave della squadra del Bosforo, lo erano stati anche della nazionale rumena che ai mondiali USA ‘94 scomparve sotto una valanga rossocrociata. Chapuisat e compagni avevano infilato quattro reti splendide. Ricordo la spropositata esultanza di mio padre, in trance davanti al tv color nel cuore della notte. Secondo un ragionamento bizantino, gli ottimisti credevano che lo spirito guerriero elvetico sarebbe stato risvegliato dalla competizione internazionale e avrebbe permesso di sbaragliare l’avversario turco-rumeno.
I pessimisti invece ricordavano una partita di Champions
assai simile: gli ottavi tra il Neuchâtel Xamax e lo stesso Galatasaray,
stagione ‘88-’89. All’andata, in casa, i cugini dello Xamax avevano dominato
tre a zero, ma al ritorno si ritrovarono nell’Inferno di Istanbul: vivace
accoglienza a partire dall’aeroporto fino all’albergo, lancio di oggetti
contundenti in campo e falli da galera. Il tutto accompagnato da cori che
potevano far crollare lo storico Ali Sami Yen. Finì cinque a zero per i turchi
e addio ai sogni europei del Neuchâtel. Alla vigilia della partita del Sion
ricordo persino di aver letto un’intervista al giocatore feticcio dello Xamax,
tale Adrian Kunz, il quale descriveva la partita di dieci anni prima come il
suo personalissimo Vietnam e l’Ali Sami Yen come l’unico stadio in cui temette
seriamente per la propria incolumità.
Il ricordo di USA ‘94, ancora vivissimo a differenza di
quello sbiadito del Neuchâtel, mi portava nel campo degli ottimisti, ma a
partire dalla notte di San Lorenzo una sottile paura aveva incollato le mie viscere.
Con questi sentimenti contrastanti mi recai a Tourbillon. Per la prestigiosa
occasione decisi di andare con mio padre, che comprò dei biglietti in tribuna
centrale e si portò dietro anche mio fratello, allora poco più che decenne.
Abbandonai la curva, ma una partita di Champions, pensai, andava gustata da
seduti, come un piatto raffinato. Per fare casino ci sarebbe stato il
campionato, a partire già dalla domenica successiva.
Parcheggiammo nelle vicinanze di un bistrot, questione di
farsi una birra (io), un bianco (mio padre) e una rivella (mio fratello) per
arrivare allegri allo stadio. Già percorrendo il breve tratto che separava la
città da Tourbillon, ci rendemmo tuttavia conto che l’atmosfera non era delle
migliori. Il numero spropositato di poliziotti in assetto antisommossa faceva
credere che si fosse finalmente realizzato il più grande timore dello Stato
Maggiore elvetico: l’attacco al ridotto alpino. Mi parve persino di scorgere
qualche riservista dell’esercito in divisa, non so se richiamati d’urgenza per
contenere duemilacinquecento tifosi giallorossi o se, semplicemente, desiderosi
di entrare gratis allo stadio. Mio padre si rese conto che avrebbe potuto
scegliere un’altra partita per portare allo stadio suo figlio più piccolo, il
quale però non sembrava minimamente turbato, ma anzi sghignazzava gridando
“mamma li turchi” imitando nostra nonna.
Arrivati all’ingresso capii che la situazione era disperata. I tanto attesi fumogeni e i petardi c’erano, peccato provenissero interamente dalla curva degli ospiti. Una volta dentro, lo sconforto fu definitivo: gli spalti erano pieni solo a metà. Da tutti definito come l’Old Trafford vallesano, Tourbillon normalmente scoppiava di tifosi. Nella stagione della doppietta campionato-coppa era statisticamente lo stadio svizzero con il maggior numero di spettatori e, per quanto i dati non fossero ufficiali, era senza dubbio lo stadio con la più alta concentrazione di tifosi ubriachi. Anche gli Ultras Sion, nei Gradins nord, erano sottotono. Le bandiere sventolavano stanche e il capo ultrà si era persino dimenticato di togliersi la maglietta. Lo conoscevo bene. Sugli spalti la domenica e carpentiere durante la settimana. Un bravo ragazzo, anche se un paio di cicatrici lasciavano intendere che bisognava stargli alla larga, in particolare il sabato sera. Mi chiamava “le rital”, l’italiano, e all’inizio di ogni stagione si premurava di darmi il benvenuto con un cazzotto nella schiena, sputandomi in faccia che avrei fatto bene a imparare in fretta i nuovi cori. Era il suo modo di esprimere un certo affetto, anche perché rientravo tra i pochi valorosi che si facevano sempre la trasferta a Lugano, essendo per me a due passi da Milano.
Nel settore ospiti, invece, c’era il delirio:
millecinquecento turchi stipati in un quadrato, con ai lati due corridoi di
sicurezza, che presto si riempirono di oggetti d’ogni tipo. I restanti mille
tifosi giallorossi erano sparpagliati nelle tribune, compresi tre ragazzi
dietro di noi che da soli riuscivano a coprire gli annunci dello speaker.
In panchina sedevano due allenatori leggendari, Alberto
Bigon, che meriterebbe una statua solo per aver fatto vincere uno scudetto al
Napoli e uno al Sion, e Fatih Terim. Entrambi tesissimi. Iniziò così la partita
e dopo quattro minuti eravamo già sotto di uno. Un corner pessimo di Hagi si
tramutò in un assurdo autogol di tale Milton, che si spacciava per essere un
attaccante brasiliano. In effetti quella sera ci regalò una bella dose di saudade, mettendo un’incornata degna del
miglior Bierhoff nella porta sbagliata. Ancora oggi non mi spiego che cosa ci
facesse la punta del Sion sul primo palo.
Dopo cinque minuti ci fu il raddoppio del Galatasaray. La
partita cominciò a farsi bruttissima, i vallesani si innervosirono e volarono
cartellini da una parte e dall’altra. Immancabile, arrivò il fallo di reazione
di un nostro difensore. Rosso e Sion in dieci al minuto ventidue. Ormai lo
stadio vibrava ritmicamente al suono di un impressionante “GA-LA-TAS-SARRRAY”.
Roba da alzarsi e tornare al bistrot. Poi il miracolo. Con un brillante
contropiede il Sion riuscì ad arrivare sulla tre-quarti, passaggio filtrante di
Zambaz, meraviglioso sinistro incrociato di Lonfat. Rete! Un gol tutto
vallesano, essendo Lonfat di Martigny e Zambaz di Vetroz, un paese vicino Sion
dove tutti i cognomi finiscono in zeta. Mio padre cominciò a vantare un legame
di parentela con metà dei giocatori in campo, mentre io avevo preso mio
fratello sulle spalle.
Tourbillon cominciò a svegliarsi, i Gradins nord finalmente si fecero sentire e nelle tribune ricomparve la solita allegria, insieme a parecchia birra. Finì così il primo tempo.
Uscimmo allora dallo stadio, per andare dietro le tribune
a bere qualcosa, visto che in Vallese quando si radunano più di dieci persone
in un posto i banchetti con raclette, salsicce e vino bianco non mancano mai.
La voglia di bere, però, mi passò in fretta quando mi accorsi che a dividerci
dal settore ospiti non c’erano inferriate, ma un doppio cordone di poliziotti.
D’altronde in Svizzera le inferriate si potevano trovare solo intorno alle zone
militari.
Fino a quel momento i tifosi del Galatasaray in realtà si
erano comportati bene e fu permesso loro di uscire sul prato dietro la curva.
Allungai la testa tra gli scudi e i manganelli e d’un tratto mi trovai di
fronte una scena che non ho mai più dimenticato: centinaia di turchi sparsi sul
prato a gambe allargate erano intenti a pisciare. Non pisciavano contro il muro
dello stadio, ma proprio in mezzo al prato, uno accanto all’altro,
numerosissimi. Parevano l’esercito Ottomano schierato prima della battaglia.
Questo gesto tanto arrogante quanto spensierato segnava decisamente la loro
superiorità. Erano riusciti a marcare il territorio nel senso letterale del
termine. Fu allora che mi venne in mente il motto del Galatasaray: “bir renge ve isme sahip olmak, türk olmayan
takımları yenmek” (per avere un colore e un nome, per battere squadre non
turche). Compresi fino in fondo chi fossero i grandi e chi i piccoli. I
successi del Sion erano arrivati perché c’era tanta voglia di divertirsi e di
festeggiare, il Galatasaray invece giocava per dominare. Il divertimento lo
lasciavano ai semi-professionisti svizzeri. Tornammo in pancia a Tourbillon
come eravamo entrati, avviliti e senza grandi speranze. La pratica venne chiusa
in fretta dai turchi, con altri due gol firmati Ilie e Suat Kaya. Doppio
fischio e tutti sotto la doccia. Prenderne quattro in casa poteva bastare. Non
potei guardare nemmeno la partita di ritorno, visto che nessuna emittente
televisiva italiana o svizzera si degnò di trasmetterla. Guardai stancamente il
Televideo per novanta minuti, solo per veder comparire lo stesso risultato
anche a Istanbul. Con otto reti subite si concludeva la nostra Champions
alpina.
La sconfitta contro il Galatasaray segnò l’inizio di un
rapido declino. Di lì a poco Bigon si dimise e nel 1998 Costantin lasciò il
Sion ormai prossimo al fallimento. Un uomo d’affari camerunense, tale Gilbert
Kadji, provò a salvare il club, ma invano. Seguirono retrocessioni e
fallimento, in quello che fu senza alcun dubbio il momento più buio della
storia del calcio vallesano. Solo nel 2003 Costantin ritornò sui suoi passi, ma
questa è un’altra storia.
Curiosamente la stagione 1997/1998
fu disastrosa anche per il Milan. Una combo micidiale per un giovane tifoso. L’addio
di Bigon e la crisi dei rossoneri furono tra i primi motivi (o scuse?) che mi
portarono a disinteressarmi al calcio. Una recente scintilla, ovvero la
decisione di Gattuso di andare a giocare a Sion, pareva potesse riaccendere la
passione. Ma fu solo un fuoco di paglia. Nonostante tutto, però, vado ancora a
Tourbillon quando mi capita. Bevo una birra, guardo il campo curatissimo e
penso a quanto sia bello sentirsi a casa.
***
Quello che avete letto è il primo dei dieci racconti di "Memorie dell'Europa Calcistica. L'Erasmus del pallone", pubblicato a febbraio da In Contropiede e di cui all'epoca pubblicammo l'introduzione ("Nostalgia di Funchal"). L'ha scritto Raymond Antonin, vallesano di Sion ma cresciuto tra la Svizzera e l'Italia, che oggi vive tra Roma, Parigi e Bruxelles "cercando rifugio", come ama dire lui, "in un’Europa sempre meno francofona, continuando a guardare verso sud".
Il libro lo si può sempre trovare sul sito dell'editore, nelle librerie on line o alle presentazioni che continueremo a organizzare in giro per l'Italia, perchè finora ci siamo sempre diverti da morire, e quindi continueremo a farlo.
Mi è venuta voglia di assaggiare una Rivella!
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