Meno di un anno dopo, il 22 giugno 1974, al
settantottesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista.
Ma non me ne sono reso conto subito. Quello che ho
sentito sul momento è stato un sussulto, una specie di esultanza interiore non
prevista, un singhiozzo, la reazione del ginocchio al martelletto che provoca i
riflessi; una cosa controllata e allo stesso tempo incontrollata. Poco
comprensibile, come la reazione di mio padre, che si è voltato di scatto a
guardarmi, quasi per dirmi: ma che fai? – però non lo ha detto. Tutti e due
siamo tornati composti e attenti alla partita, attenti ma non troppo, col
distacco che avremmo dovuto avere per una partita dei mondiali che non ci
riguardava e che in fondo aveva poca importanza anche per le due squadre che
giocavano: erano entrambe già qualificate per il turno successivo e in palio
c’era solo il primo posto nel girone.
Era il 1974. Avevo dieci anni e una conoscenza dei
giocatori e delle squadre precoce e precisa. Erano i miei primi mondiali
totalmente consapevoli, e si svolgevano in Germania. Avevo comprato anche
l’album delle figurine München ’74;
avevo imparato i nomi dei calciatori ancora prima dell’inizio. Era tutto
pronto, l’Italia tra le favorite. Andava tutto bene, tranne una cosa. Un po’
inquietante. Ne aveva parlato anche La Gazzetta dello Sport. Diceva: un momento
storico. Parlava di un’altra Germania, la Germania Est, e tutt’e due erano
state sorteggiate nello stesso girone. Anche nell’album c’era quest’altra
Germania. Era strano, perché in una c’erano Beckenbauer, Gerd Müller, Sepp
Maier e altri che tutti già conoscevamo; nell’altra, solo giocatori
sconosciuti, che giocavano quasi tutti nella Dinamo Dresda.
Mi ero dato questa spiegazione: la Germania Est era
una specie di formazione delle riserve, la squadra B. Se me lo avessero
chiesto, avrei risposto che forse era venuta a mancare qualche altra squadra e
avevano messo in piedi una formazione per la regolarità della competizione.
Solo per questo motivo c’era un’altra Germania con calciatori che nessuno
conosceva e di cui nessuno parlava.
Intorno, c’erano nomi indimenticati o dimenticati
come Francisco Marinho, Françillon, Heredia, Rivelino, Ronnie Hellström, Hristo
Bonev, Bremner e il centravanti haitiano Sanon che segnò un gol a Zoff dopo
diciannove ore e tre minuti di imbattibilità. C’erano le partite con l’Olanda
più forte di tutti i tempi – Cruyff, Rep, Neeskens e Van Hagenem; il 9 a zero
della Jugoslavia contro lo Zaire; c’era soprattutto la disfatta dell’Italia con
la Polonia di Deyna e Szarmach e il gestaccio di Chinaglia all’indirizzo
dell’allenatore. Dopo l’eliminazione dell’Italia, avevo paura che il mondiale
non lo guardassimo più. E invece, fin dalla partita successiva, mio padre
accese il televisore e io fui sollevato. Poi venne la sera del 22 giugno. Ad
Amburgo, c’era la partita storica. L’incontro tra le due Germanie.
A quel punto, avevo ormai capito che la storia
della squadra delle riserve non funzionava. La questione era più complicata.
Scoprii che quella che avevo sempre chiamato la Germania era solo una parte
della Germania; quella dell’Ovest, più precisamente. Mio padre non nominava
volentieri l’altra, e se lo faceva sembrava avere un tono di disprezzo. Più
esattamente, chiamava “Germania” la Germania Ovest, e “Germania Est” la
Germania Est – e la nominava soltanto perché era ai mondiali (per questo non ne
avevo mai saputo nulla). Anche gli altri facevano così, e quindi facevo così
anch’io. Era come se non provassimo simpatia per quella squadra. Chiedevo
spiegazioni e mio padre mi diceva che di Germania non ce n’era una, ma due.
Diceva che per dividerle avevano messo un muro che attraversava tutta la città
di Berlino. E quelli che stavano al di là del muro, non potevano venire più da
questa parte.
Prima del fischio d’inizio, Beckenbauer e Bransch
si erano scambiati gagliardetti e al telecronista era sembrato un gesto
simbolico. Quando cominciò la partita, tutti i presupposti si rivelarono esatti:
si capì subito che c’era una differenza tra le due squadre evidente e
schiacciante, così da recuperare anche solo simbolicamente – come i
gagliardetti – la mia idea di squadra A contro squadra B, titolari contro
riserve, prima squadra contro squadra primavera. E allora io, nonostante una
fosse la Germania e l’altra fosse soltanto l’Altra Germania, nonostante mio
padre mi avesse raccontato le cose in modo tale che la scelta non potesse
essere che una, pian piano cominciai a sentire crescere un’incontrollabile
simpatia per quegli sconosciuti, più deboli, più fragili, più lontani, più
poveri e con le tute più tristi.
Arriva il settantottesimo minuto. Fino ad allora,
la Germania Est si è difesa e ha resistito e ha lanciato palloni lunghi
sperando che succedesse qualcosa lì davanti, e intanto comunque c’era il tempo
di rifiatare. Poi le cose nel calcio, e non solo nel calcio, accadono così,
all’improvviso. Hamann fa un lungo lancio in diagonale verso il suo compagno,
il centravanti Jürgen Sparwasser – un lancio in diagonale verso la porta
avversaria, uno di quei lanci che conservano sempre la speranza intima e
improbabile di mettere un compagno in posizione molto favorevole, ma anche uno
di quei lanci che li fai cento volte e quella speranza si rivela infondata: il
compagno non ci arriva, il difensore ci arriva prima, il lancio è fuori misura
(troppo lungo, troppo corto), il portiere anticipa tutti; oppure il compagno ci
arriva eppure non succede niente lo stesso, e dopo un minuto quell’azione l’hai
già dimenticata.
Un lancio.
Un lancio di Hamann, in una specie di contropiede
con qualche speranza che c’è sempre e che quasi sempre è delusa. Ma ciò che
tiene in vita quella speranza, è che basta una volta su cento, anzi una volta
su mille, se quella volta è quella giusta.
Adesso Jürgen Sparwasser, in un attimo, senza aver
avuto il tempo di rendersene conto, si ritrova, nonostante sia in mezzo a tre
giocatori avversari, con il pallone che gli rimbalza quasi davanti mentre lui
gli sta correndo incontro – e il rimbalzo e la sua corsa fanno incontrare lui e
il pallone in modo del tutto imprevedibile, visto che il pallone gli sbatte sul
viso e lui non fa in tempo a girare la testa per colpirlo di lato, e lo prende
in faccia, ma allo stesso tempo sa che il pallone è andato avanti ed è proprio
dove lui sta correndo, così subito lo aggiusta un po’ con il petto, quanto
basta.
E l’attimo dopo si ritrova con il pallone tra i
piedi appena dietro il dischetto del rigore.
Tutto si svolge come in un teatro: quando
Sparwasser ha la palla davanti ai piedi ed è davanti a tutti, con uno sguardo
malefico chiama fuori il mitico Sepp Maier; Vogts, che ha già capito tutto, sta
per volare in spaccata, perché la disperazione porta il difensore alla
spaccata, forse per fare un tentativo reale o forse unicamente per salvare la
faccia, per far vedere a tutti che lui, almeno, ci ha provato - e anche questo è istinto; Höttges, nessuno
saprà mai perché, ormai lontano dalla palla si lascia cadere in ginocchio,
forse per pregare o forse per rendere evidente, simbolica, la resa (questa sarà
la sua ultima partita in nazionale); e Sepp Maier, il povero grande Maier, fa
quello che deve fare un portiere con finta improvvisazione, cerca il più presto
possibile un punto dove l’attaccante, quando alzerà la testa e guarderà prima
di calciare, vedrà davanti a lui un portiere grande grande e una porta piccola
piccola, più piccola che si può – intanto Vogts è già atterrato inutilmente
nella sua spaccata sopra le righe.
Jürgen Sparwasser, infine, fa quello che fa un
attaccante quando il portiere chiude lo specchio della porta: mette il piede
sotto la palla, per colpirla, e la palla si alza di quel tanto che basta a
scavalcare l’ultimo baluardo dell’Ovest. Perché sa che dietro quel corpo c’è la
porta, anche se si vede a stento, ma non importa, lui non ha bisogno di
vederla, sa che c’è. E infatti la palla si dirige neanche tanto rapida verso la
rete, giusto il tempo di far pensare a chi la guarda che non c’è più niente da
fare. La palla si infila in rete. La rete si gonfia poco, perché il pallone è
lento. Le maglie azzurre con lo scollo a V bianco, lo stemma e la scritta DDR
sul cuore, si raccolgono tutte in un abbraccio. Sparwasser si butta a terra,
faccia nell’erba, perché si rende conto in ritardo di quello che è successo.
Mio padre si è girato di scatto, al settantottesimo
del secondo tempo di Germania Ovest – Germania Est. Ha sentito quel sussulto,
anche se è stato soprattutto interiore, come uno scoppio detonato tra i polmoni
e la gola. In quel momento, forse, abbiamo intuito tutti e due che non saremmo
più tornati indietro al periodo che andava dalla mia nascita fino al
settantasettesimo minuto di quella partita. L’abbiamo intuito e abbiamo evitato
di guardarci, io perché avevo capito poco e lui perché aveva intuito troppo. E
poi, mentre lo stadio ammutoliva e quelli con le tute tristi in panchina si
abbracciavano, tra la poltrona di mio padre e la mia, un piccolo muro,
invisibile e incompreso, ha cominciato a venire su, come se fossimo nel centro
di Berlino.
"Il desiderio di essere come tutti", di Francesco Piccolo, pp. 33-45 (riduzione di Lacrime di Borghetti)
Mi è piaciuta l'immagine del muro invisibile e incompreso.
RispondiEliminaUn bellissimo estratto. E, ovviamente, quello di Sparwasser un gol pazzesco. Lineare e impossibile.
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